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POTENZA – Il problema è se si cancellano o accorpano le diocesi (come dovrebbe avvenire a Tricarico e Acerenza) o se la chiesa non è più al centro del mondo, com’era un tempo?


E’ la domanda centrale – che contiene in sé la risposta – da farsi dopo aver parlato con Fabrizio Carletti. Umbro, 46 anni, è oggi consulente e formatore pastorale del Centro Studi Missione Emmaus, laboratorio di idee che accompagna il “cambiamento pastorale” di parrocchie e diocesi.


Non commenta la vicenda lucana – sotto i riflettori dopo l’annuncio dell’accorpamento delle due diocesi a Matera e Melfi – ma propone una lettura alternativa dell’attualità ecclesiale. E di come una decisione del genere possa favorire (o meno) i cambiamenti epocali che Carletti ritiene indispensabili.
«Ricordiamo – dice – che quando la chiesa ha strutturato il suo governo sul territorio, sono nate prima le diocesi, essendo la figura di riferimento un vescovo che doveva condurre le città, e dopo le parrocchie, quando è cominciata l’esigenza di controllare il contado».


Ne parla come strutture di potere.
«Lo erano, istituite ispirandosi alle forme di governo del tempo ».


E quindi?
«Oggi è cambiata realtà. Siamo consapevoli che la chiesa non può più permettersi questo tipo di azione pastorale di controllo e di gestione, eppure ancora usa questo paradigma. L’importanza è data alla suddivisione del territorio e non al tessuto relazionale».


Possiamo spiegarlo in maniera più chiara?
«Questa pastorale di “controllo e gestione” è l’apparato residuale di un’epoca morta. Un modello disfunzionale. Noi insistiamo sul cammino sinodale, per una chiesa che deve convertire sé stessa».


Sembra un linguaggio da economista, il che contraddirebbe le premesse.
«E invece poniamo un problema spirituale: cos’è che mette in discussione il modello attuale? Ci sono cambiamenti epocali nella storia. Cinquant’anni fa nasce la Caritas e Paolo VI cambia la chiesa così come sei secoli fa Niccolò Cusano rompe la teologia tradizionale o, in epoca recente, il teologo gesuita Michel de Certeau cambia la teologia».


Parlava di spirito.

«Lo spirito lavora non in termini di sapere ma di sapore. La gente non trova più gusto. Certe omelie oggigiorno non sanno di nulla. C’è una spaccatura tra le forme e le parole attraverso cui sperimentiamo la fede, da una parte, e la vita delle persone dall’altra. In parrocchia non percepisco più gusto e sapore».


E come dovrebbe cambiare la chiesa?
«Esiste un cambiamento adattivo e resiliente come quello della fase Covid sempre basato su modello gerarchico e controllo, in cui si dice ai fedeli anche come devono pregare. Ma in un cambiamento d’epoca non basta. E’ necessario un mutamento “antifragile”. Una conversione».


Una presa di coscienza?
«Sì, un’elaborazione del lutto. La chiesa oggi non è più al centro dell’universo. Non sto giudicando le forme attuali. Ma non è più quel tempo».


Ad esempio, voi in lockdown cosa avete proposto e realizzato?
«Abbiamo formato online dei facilitatori di processi di ascolto, confronto e dialogo online».


In parole più semplici?
«Piccoli gruppi, non oltre otto persone, che davano vita a una fase profonda di ascolto e dialogo. Il sacerdote coordinava ma partecipava al massimo a un gruppo. I fedeli hanno bisogno di storie, non di indicazioni, documenti e materiali».


Quali storie?
«Raccontare sé stessi in momenti di fede: in lockdown cosa ti manca e cosa no, di cosa puoi fare a meno?».


E tutto questo può passare attraverso l’accorpamento di diocesi?

«E’ una scelta che ha in sé un grande rischio. Può essere una grande opportunità se vista come punto di partenza. Come azione sulla base di un sogno e non di un bisogno. Se la gestiamo con la stessa mentalità di prima, sarà vista come perdita di identità, significatività, storia. Ma se si mette in atto processo tutelando le diversità, mettendole in rete, ridefinendo uno sguardo comune, allora servirà. Ciò che unisce non è la prassi ma lo sguardo».


Ossia?
«Il sacerdote dà lo standard e gli altri soggetti assumono una corresponsabilità. E’ una suddivisione di potere. Non c’è più un centro. Tranne Cristo».


Eppure ci sono resistenze.
«La critica maggiore è: la perdita di vicinanza con il territorio. Ma quanto è vicino un vescovo alle parrocchie? Quanto lo si vede in giro? Sono critiche figlie del paradigma gestione-controllo. Il papa insiste sulle ministerialità laicali. Se ogni parte contiene il tutto, se sacerdote e laico mantengono uno stesso sguardo, condiviso con il vescovo, che problemi ho? Un falso problema quello della vicinanza. Non si è lontani e vicini dalla parrocchia ma da Cristo».


Nella chiesa è prevalente questa visione?
«Vedo un bel fermento. Cambieranno diversi vescovi, i criteri sono diversi dal passato, per questo rifiutano in tanti. Cambia la governance con un anelito diverso: da progetto a processo. Devi morire per risorgere».

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