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Il professor Paolo Harabaglia

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POTENZA – Il sole dà una spinta ai terremoti. La spinta decisiva, che determina se il movimento tra le rocce arrivi o meno al punto di rottura e dunque si sviluppi la scossa tellurica. La scoperta di Vito Marchitelli, Paolo Harabaglia, Claudia Troise e Giuseppe De Natale – nell’ordine in cui hanno firmato l’articolo scientifico “On the correlation between solar activity and large earthquakes worldwide” (“Sulla correlazione tra attività solare e grandi terremoti in tutto il mondo”) pubblicato il 13 luglio scorso su Scientific Reports – è un terremoto nel campo dei terremoti. Rivoluziona dalle fondamenta tutto ciò che pensavamo di sapere in materia. Beninteso, si tratta di un modello ipotizzato dai quattro studiosi e che ora dovrà reggere a una sperimentazione ad hoc. Ma già il fatto che sia stato pubblicato sulla rivista dell’editore Nature (che il professor Harabaglia ricorda essere «il gruppo più prestigioso al mondo relativamente alla ricerca scientifica») e che l’articolo sia stato sottoposto «a un referaggio (esame valutativo di altri studiosi qualificati, ndr) rigorosissimo durato due anni», depone a favore della sua serietà.

La ricerca – fra le cui tante implicazioni potrebbe esserci la scoperta futura di un sistema attendibile di previsione dei terremoti – ha anche una componente lucana: Paolo Harabaglia, appunto, sismologo in forze alla facoltà d’Ingegneria dell’Università degli Studi della Basilicata. E’ proprio lui a guidarci nei meandri dello studio.

Partiamo dall’inizio, professore. Dal sole.

«Il sole emette continuamente radiazioni e particelle. Sostanzialmente atomi d’idrogeno che sono scissi fra un protone (di carica positiva) e un elettrone (di carica negativa). La Esa e la Nasa hanno in orbita a un milione e seicentomila chilometri il satellite Soho (Solar and Heliospheric Observatory, Osservatore solare eliosferico, ndr) che misura in particolare i protoni».

Si trova nel cosiddetto “punto di Lagrange”?

«Esatto, per la precisione in L1, ossia in posizione fissa fra la Terra e il sole. In realtà ogni tanto lo devono correggere ma fondamentalmente rimane lì. Questa massa di protoni colpisce prima il satellite e poi la Terra. Quello di cui ci siamo accorti è che, quando la quantità di protoni che colpisce la Terra è superiore alla media, il giorno dopo in tutto il mondo si osservano più terremoti di quelli che dovrebbero mediamente esserci».

Di che terremoti stiamo parlando?

«Noi i calcoli li abbiamo fatti da magnitudo 5.6 in su e su un intervallo di 21 anni, cioè dal 1996 al 2017, periodo in cui erano disponibili i dati. In realtà questa cosa ha delle implicazioni pesantissime: tutti pensano che i terremoti si generino a causa del movimento delle placche. Queste si muovono di qualche centimetro all’anno, creando pressione sulle rocce che a un certo punto si rompono generando il sisma».

E non è così?

«E’ evidente che questo modello generale è comunque valido. Però la nostra osservazione ci dice che, quando ci sono punti che sono lì lì per rompersi, può entrare in gioco un altro fattore che anticipa la rottura. Uno di questi è il fattore elettrico. Se io osservo questa correlazione con i protoni, e solo ed esclusivamente con essi, vuol dire che questo fattore è necessariamente elettrico».

Necessariamente?

«Perché il protone è la carica elettrica positiva. Arriva in atmosfera e perturba l’andamento delle correnti elettriche che ci sono in tutta la Terra. Ci sono continuamente temporali in giro per il mondo che generano fulmini. Ci sono sempre queste correnti elettriche lungo il pianeta, dall’atmosfera al terreno e viceversa. Abbiamo proposto come meccanismo quello piezoelettrico inverso. Meccanismo che in realtà conosciamo tutti».

L’accendigas.

«Esatto. Se prendo un cristallo di quarzo e lo spremo, si genera una corrente elettrica: il piezoelettrico diretto. Se faccio passare la corrente elettrica in un cristallo di quarzo, si espande: l’inverso. C’è un piccolo particolare: il quarzo è di gran lunga l’elemento più comune nella crosta terrestre. Questa è perturbata continuamente da correnti elettriche. Il quarzo viene deformato dalle correnti, in modo impercettibile ma sufficiente: se un terremoto è vicino alla rottura, questo è bastevole. E’ evidente che, poiché ci sono correnti elettriche che girano nella crosta sempre, non è detto che soltanto il sole generi questi fenomeni di innesco della rottura. Di conseguenza, se avessimo i sistemi di monitoraggio giusti – e noi sappiamo cosa dobbiamo fare – è molto probabile che potremmo accorgerci dell’arrivo di un terremoto anche con alcuni giorni di anticipo».

Se da questo modello si potesse capire quali siano i punti in cui le correnti agiscono, e se in quei punti ci fosse già uno stress vicino a quello che porta alla rottura, si riuscirebbe a prevedere i terremoti, antica chimera dell’uomo?

«Esattamente. E’ molto probabile. Sembra una strada estremamente promettente».

Ma anche estremamente rivoluzionaria. Si è sempre detto che prevedere i terremoti è impossibile.

«In realtà è una balla».

In che senso?

«Dipende in che termini si vuole prevedere. E’ evidente che – se si vuole che io preveda il posto esatto, l’epicentro con un errore massimo di cento metri e l’ora con un errore di dodici minuti – non ci siamo. Però ci sono già oggi delle tecniche statistiche che ti permettono di farti un’idea. Non arrivano al pubblico ed è giusto così: ci possono essere degli errori, si potrebbe generare un allarme. Si tratta di sistemi per addetti ai lavori».

Professore, all’Aquila ci fu una grande polemica perché furono condannati gli esperti…

«Io penso giustamente».

Perché?

«Se ho seguito bene la vicenda, la grande colpa di questi esperti a mio parere era non quella di non aver previsto il terremoto ma di aver previsto un non-terremoto. Avevano rassicurato dicendo che non sarebbe successo niente. La posizione corretta sarebbe stata: non abbiamo alcuna certezza, conseguentemente regolatevi voi. Dire “Non accadrà nulla” equivale a una previsione».

Ma realmente è giusto, secondo lei, che questi metodi di previsione (che comunque non danno certezze) non arrivino al pubblico?

«Sì. Ci sono comunque dei livelli di errore. Diciamo che i calcoli li facciamo con una certa probabilità. Prendiamo le previsioni del tempo. Il meteorologo le dice: dopodomani pioverà. Poi invece c’è il sole. Può anche provocare un danno di tipo economico, perché magari il turista non si è mosso o cose di questo genere…».

…ma difficilmente qualcuno morirà per questo.

«Esattamente. Se invece prevedo l’arrivo di un terremoto, e non si verifica, nel frattempo ho seminato il panico. Immagini cosa accadrebbe in una grande città. La gente scapperebbe e la probabilità di avere dei morti sarebbe addirittura superiore».

Ma qual è la probabilità di indovinare o di sbagliare con i metodi di cui parla?

«Dipende. Sicuramente c’è un metodo ottimo per le assicurazioni ma che non serve per le persone. Ci sono dei matematici russi che riescono, con la precisione di un raggio di 500 km e un’incertezza di due anni, a fare previsioni per magnitudo 7.5 o superiori. E ci riescono in due casi su tre. Ora, come capirà, questa previsione ai fini della Protezione civile non serve a nulla. Serve ai fini di una compagnia assicurativa che deve decidere quali polizze proporre in una certa zona».

Dirlo alla gente per lei dunque è sbagliato. E dirlo ai decisori pubblici?

«Se ci credessero non sarebbe una cattiva idea. Poi ci sono altre tecniche che tante volte funzionano. Le do un esempio: proprio all’Aquila, il sisma è stato preceduto da una sequenza di eventi piccoli secondo quella che io chiamo “a dinamica crescente”. Diciamo un numero: una volta su venti, quando si verificano queste sequenze, si ha un terremoto come quello dell’Aquila. Dunque ho il 5% di probabilità. Il 5% forse è poco: dipende da come si ragiona».

Dal terremoto dell’80 c’è stato un progresso di queste tecniche?

«Sì, è abbastanza evidente».

Quindi è probabile che, lentamente, si arrivi a un metodo che preveda i terremoti in maniera più affidabile?

«Recentemente ho pubblicato un altro lavoro cui non ho dato particolarmente risalto, proprio perché c’era una previsione dentro, in cui ipotizzo l’anno più probabile in cui potrebbe arrivare un terremoto grosso in Italia. Ma che significato ha? Nessuno. Non glielo dico neanche qual è l’anno: non ha alcun senso. Serve a me per imparare».

Proprio non vuole dircelo?

«E’ pubblicato su internet. C’è un documento, ovviamente in inglese, di libera consultazione».

C’è un collegamento fra i terremoti che avvengono sul pianeta?

«E’ certamente dimostrato che tutti i terremoti risentono della storia dei terremoti che li hanno preceduti. Non è vero che non esista correlazione fra terremoti distanti. C’è tutta una letteratura scientifica che lo dimostra. Quando dicono: “Non c’è correlazione”, la formulazione giusta sarebbe “Non abbiamo capito quale sia la correlazione”».

Torniamo alle sue ricerche più recenti, quelle sul sole.

«E’ evidente che si tratta di una questione completamente diversa. Noi abbiamo un’idea abbastanza precisa di cosa guardare e di come debbano essere fatti gli strumenti di misurazione».

Strumenti che esistono già?

«No».

Bisogna “inventarli”?

«Diciamo che abbiamo già l’idea in testa. Probabilmente nel prossimo lavoro, che pubblicheremo il mese prossimo, spiegheremo come li vogliamo fare. Per settembre od ottobre potrebbero essere pronti. Ma ci vuole qualcuno che decida di pagarli e installarli. E fare la sperimentazione per il giusto periodo di tempo per capire se stiamo ragionando nel modo corretto oppure no».

Quanto costerebbero?

«Diciamo che potremmo fare una rete in Basilicata con qualche centinaio di migliaia di euro. Se volessimo “strumentare” l’Italia ce la caveremmo con alcuni milioni di euro».

Insomma, cifre che il bilancio dello Stato può ampiamente permettersi.

«Ma se costruissimo bene le case, prevedere i terremoti non servirebbe a nulla. In realtà come Paese abbiamo il grosso problema di un alto numero di beni storici, che altri non hanno, estremamente difficili da mettere in sicurezza».

Perché avete pensato all’influsso del sole sui terremoti e non sulle alluvioni o sulle eruzioni?

«Le racconto come è andata. Io sto alla facoltà di Ingegneria. Quando c’è un sisma in genere vado subito a fare dei rilievi insieme ai miei colleghi ingegneri. Quello del 2016 è noto come terremoto di Amatrice, ma in realtà l’epicentro si trovava spostato di una quindicina di chilometri sotto Accumoli. Noi siamo andati appunto ad Accumoli. Stavamo girando per il paese e abbiamo conosciuto il vicesindaco, Dante Di Giammarino. Lui mi parlò di strani fenomeni che aveva osservato il giorno precedente la scossa. I colleghi ingegneri hanno quasi riso del fatto che fossi interessato a quella storia. La cosa finisce lì. Passa quasi un anno e mi telefona una persona dicendomi: ma io ho delle idee, secondo me si possono prevedere i terremoti. Questo tizio – che poi è il primo autore del lavoro – è una persona molto particolare».

Una persona qualificata?

«No, all’epoca non lo era per nulla. Lui dispone di due lauree, in Tecnologia alimentare e in Ingegneria, e fa il pasticcere».

Prego?

«Sì. Ha un’azienda di famiglia. E’ una persona estremamente intelligente, forse la più intelligente che abbia mai incontrato nella mia vita. Abbiamo cominciato a ragionare su questa influenza elettrica, dopo che avevo ascoltato i racconti di quei fenomeni dal vicesindaco di Accumoli. Poi siamo andati avanti con il ragionamento e a un convegno abbiamo agganciato gli altri due colleghi, persone un po’ fuori dalla comunità scientifica ma con titoli pesantissimi. Pino De Natale in particolare è stato direttore dell’Osservatorio Vesuviano, ha 150 pubblicazioni ed è risultato vincitore nel 2018 della Medaglia Soloviev dato dalla Società europea di geofisica a quello che è considerato il migliore geofisico del continente. Ci siamo messi a lavorare su queste cose sostanzialmente gratis. Unico costo, la corrente elettrica consumata dai computer».

Avete lavorato a distanza?

«Beh, prima del coronavirus ci incontravamo a distanza. Poi siamo animali notturni e abbiamo lavorato di notte al telefono».

Può dirci quali fossero quei fenomeni di cui le aveva parlato il vicesindaco di Accumoli?

«Aveva visto quella che ha definito “una nebbiolina rosa”. L’abbiamo ricostruito, si chiama “glow”. Si tratta di aria caricata elettricamente. L’aveva vista sia prima della scossa del 24 agosto sia prima di quella del 30 ottobre. Non l’ha vista prima di quella del 26 ottobre».

Aria caricata elettricamente. Fenomeno già noto?

«Basta farsi raccontare com’era il cielo a Potenza la sera del 23 novembre 1980».

Com’era?

«Particolarmente rosso. Lo so perché l’hanno visto e me l’hanno raccontato tante persone».

E questo per le correnti elettriche?

«Sì, probabilmente fanno qualcosa. Non mi è chiaro perfettamente il meccanismo, ma ho notato che questi fenomeni si osservano spesso. C’è un video su Youtube relativo al terremoto in Messico del 2018, si vedono lampi, bagliori. Basta inserire le parole chiave “earthquake”, “mexico” e “lights”. Capita molto spesso, anche diversi giorni prima del terremoto. Queste sono le cose che dobbiamo andare a guardare nel modo corretto, avendo il modello».

Cioè?

«Il problema non è se si misura qualcosa. Questi fenomeni premonitori sembrano quasi delle condizioni necessarie ma non sempre sufficienti. Dunque, è importante scoprire non se le correnti elettriche condizionino i terremoti, che mi sembra abbastanza probabile, ma quante volte portino a un terremoto. Lì sarà il discrimine se il metodo potrà funzionare oppure no».

Lei pensa che ci riuscirete?

«Io sono ottimista. Ma ovviamente finché non abbiamo una casistica non siamo in grado di dirlo».

Professore, ma se l’attività solare ha questo tipo d’influenza e se si può misurare, possiamo dire che ci siano dei “giorni preferiti” per i terremoti?

«Il 17 di novembre».

Davvero?

«Casualmente la casistica dice questo. (ride) La verità è che il sole non ha un ciclo preciso. La risposta dunque è: no. L’aspetto rilevante non è l’influenza del sole ma che, grazie a questa, abbiamo capito che può esserci un innesco elettrico. La chiave di volta sono le correnti che girano nella crosta terrestre. Qualora invece mi chiedesse se ci sono più terremoti durante un’attività alta del ciclo solare, sembrerebbe di sì. Lo studio interessa 21 anni, praticamente due cicli solari. Il fenomeno è molto più evidente nel primo ciclo, fra il 1995 e il 2005, che non nel ciclo 2005-2020, che è stato più debole. Dopo il 2012-2013 specialmente c’è stata una diminuzione dell’attività».

L’influenza delle correnti elettriche può essere dovuta anche ad altre fonti oltre al sole?

«Intende di tipo antropico? Vuole parlare delle teorie complottistiche?».

No. Ad esempio: la Luna.

«Ci sono colleghi che parlano sempre della Luna. Io francamente ho provato a fare anche studi sui grandi numeri. Si vede qualcosa ma nulla di convincente. Ma lì parliamo di influenze di tipo gravitazionale, non di correnti elettriche. Quanto la Luna può influire sul campo elettrico della Terra, e quindi sui terremoti? Non le so dare la risposta. Ci sono altri fenomeni che possono indurre campi elettrici, è possibile».

E quali sono questi fenomeni?

«Non lo so. Voglio studiarli. Ho bisogno dell’attrezzatura per farlo. Se poi vogliamo andare sulle teorie complottistiche…».

No, non volevamo parlare del 5G…

«No, parlavo dell’Haarp. E’ un esperimento degli Stati Uniti. Non è scienza. Comunque, possono esserci tanti fenomeni che ancora non conosciamo. E’ evidente che è una strada nuova che si sta aprendo adesso».

Ci sono precedenti di studi dello stesso tipo?

«Sì, ma il nostro è il primo ad avere una base statistica completa: tutta la sismicità mondiale, da magnitudo 5.6 in su, in tutto l’intervallo di tempo in cui esistono i dati. Ci sono tanti studi su singole aree, singoli terremoti. Non hanno la medesima valenza statistica ma sicuramente rappresentano un punto di partenza. Poi si studiano anche meccanismi alternativi. Ad esempio il professor Gerald Duma, austriaco, che pensava a delle coppie magnetiche, a relazioni con le macchie solari. Sinceramente le macchie solari le ho indagate e non ho visto queste grosse correlazioni. Comunque, è ovvio che non siamo partiti da zero».

Facciamo l’ipotesi migliore: domani lei ha fondi e strumenti e tutto il tempo necessario a dedicarsi a questo studio…

«Io non voglio “tutto il tempo”. O ci riesco in due anni o chiudo. Me ne accorgo subito se le misure portano a un risultato oppure no. E spero che chi ha lavorato gratuitamente – e parlo di chi mi ha accompagnato nello studio – possa avere un’opportunità».

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