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di EMANUELE VERNAVA’
 “CON occhi spenti/ toccava il cuore lo sguardo austero, con passi lenti/ camminavi il mondo intero.”,  “Al Papa Karol Wojtyla”, p. 7. E’ l’apertura di “Le mie poesie” di Cesare Galligano.  Oggi 8 settembre, ore 19, presso la Pinacoteca del Santuario del SS.Crocifisso, a Forenza. Il secondo incontro letterario dei quattro in Manifesto, col Patrocinio del Comune di Forenza, organizzati dal Centro per la ricerca in Educazione “Vincenzo Solimena”. Gli ultimi due, il 15 settembre con “La donna di rugiada” di Gianrocco Guerriero e il 22 dello stesso mese “Cantava l’anno” di Rocco Di Bono. La “cultura di periferia”, come si dice non so se con boria “accademica” o alludendo alla fisicità geografica, si arricchisce ogni giorno. La raccolta poetica di Cesare è l’ultima ad arrivare in ordine di tempo, almeno per il Centro, di cui sono responsabile.
E, diciamolo, senza tanti preamboli, poesia vera, per me. Quella del “fanciullino”, che guarda al mondo, anche nell’età della pensione, quella di Cesare, “emerito”, come si dice, Comandante dei vigili di Forenza, con meraviglia, proprio come il caruso Ciaula, che in quella notte scopre la luna mentre trasporta fuori dal pozzo della solfatara l’ennesimo sacco ripieno del minerale con cui si annuncia il diavolo dell’inferno. Sì, perché, nel mio piccolo, sono convinto che il vero poeta ha a che fare col soprannaturale, o, se volete, con l’iperuranio al quale perviene dopo lunga prigionia e drammatica conversione e quando, doverosamente ridiscenderà sulla terra per aiutare i compagni a rifare la stesa esperienza divina, non riceverà quasi mai lodi e onori, ma insulti anche pesanti che spesso gli renderanno impossibile la vita, fino a ucciderlo. Così che, quando mi trovo di fronte ad artisti e soprattutto poeti dei nostri giorni, che ricevono onori e lodi, che siedono sempre ai primi posti e a cui si offrono i migliori bocconi e pubblici additamenti di grandezza, non so perché mi vengono in mente i due sarti di “I vestiti nuovi dell’imperatore”. Papa Bergoglio dice che il linguaggio ipocrita è segno di corruzione. E ipocrita è tutto ciò che è finalizzato ad appagare il proprio egoismo nascondendosi. Ipocrita significa appunto, “giudicare sotto”, tenere gli occhi bassi per non farsi “leggere”. In questo senso il poeta vero è un ingenuo, proprio come il Nostro, Cesare Galligano. Ma ingenuo non nel senso comune, ma in senso etimologico, “nato libero” e, soprattutto rimasto libero durante il suo percorso. E’ ben vero, caro Cesare, che i poeti “veri” come tutte le figure sociali che sono persone “autentiche”, appartengono alla grande moltitudine di quelli che hanno scritto, e scrivono ancora per il futuro dell’umanità,  la storia dello “spirito”. Storia dello “spirito”, che per noi di quest’epoca, che ci sentiamo come la vigilia dell’Apocalisse, poggia sulla Croce che duemila anni venne eretta sulla collina del Teschio. Quelli che invece fanno la storia della “carne”,  stanno sottoponendo l’intera umanità, e quindi anche se stessi, ad una sofferenza inutile e senza speranza.
E, poi, il poeta vero è il “povero”, libero come l’ingenuo, che non si può costringere con lusinghe e minacce. Quel “povero”, di cui tanto si parla in questi giorni sotto l’incalzare di Papa Bergoglio. E’ proprio vero, i poveri anzi i poeti salveranno il mondo.
Via, Cesare, continua il tuo viaggio difficile e pieno d’insidie, quasi sempre senza una strada segnata sulla mappa, come nel deserto del Sahara o in quello del biancore accecante delle “nevi eterne”. “Prendimi per mano/ e portami ancora lontano,/ portami dove il sole oscurava i nostri occhi al tramonto/ e infiammava i nostri volti/consumandoli come stoppie d’Agosto…”.,  “Aurora” p. 8. 
Ma non preoccuparti di essere soprattutto un buon letterato, nel senso di esprimerti bene in italiano. Ne sanno qualcosa, ad esempio, il Bembo o Vincenzo Monti, professoroni del poetare. Orazio infatti avverte: “Non satis est pulchra esse poemata; dulcia sunto/ et, quocumque volent, animum auditoris agunto./ Ut ridentibus arrident, ita flentibus adsunt/ humani voltus: si vis me flere dolendum est/  primum ipsi tibi…”,che suona così nella nostra “italica favella”: “Non basta che la poesia sia bella; dev’essere dolce in maniera da spingere dove vuole l’animo dell’ascoltatore. Il nostro volto come si mostra sorridente a chi sorride, così si riga di lacrime davanti a chi piange: se vuoi dunque ch’io pianga, devi provare dolore prima proprio tu”. Sicché, se è vero che il poeta “crea” il bello, che poi è il vero, che poi è amore, è necessario che il vero poeta dovrà essere capace di soffrire, perché solo nella sofferenza ci si avvicina alla verità. Ma evidentemente, non tutti  abbiamo lo spessore adatto per farlo, preferendo molto spesso inseguire qualcosa di meno costoso, come un applauso, una bella figura, se non proprio qualcosa di più consistente che ci faccia trascorrere l’esistenza “sanza ‘nfamia e sanza lodo”.

“CON occhi spenti/ toccava il cuore lo sguardo austero, con passi lenti/ camminavi il mondo intero.”,  “Al Papa Karol Wojtyla”, p. 7. E’ l’apertura di “Le mie poesie” di Cesare Galligano.  Oggi 8 settembre, ore 19, presso la Pinacoteca del Santuario del SS.Crocifisso, a Forenza. Il secondo incontro letterario dei quattro in Manifesto, col Patrocinio del Comune di Forenza, organizzati dal Centro per la ricerca in Educazione “Vincenzo Solimena”. 

Gli ultimi due, il 15 settembre con “La donna di rugiada” di Gianrocco Guerriero e il 22 dello stesso mese “Cantava l’anno” di Rocco Di Bono. La “cultura di periferia”, come si dice non so se con boria “accademica” o alludendo alla fisicità geografica, si arricchisce ogni giorno. La raccolta poetica di Cesare è l’ultima ad arrivare in ordine di tempo, almeno per il Centro, di cui sono responsabile.E, diciamolo, senza tanti preamboli, poesia vera, per me. 

Quella del “fanciullino”, che guarda al mondo, anche nell’età della pensione, quella di Cesare, “emerito”, come si dice, Comandante dei vigili di Forenza, con meraviglia, proprio come il caruso Ciaula, che in quella notte scopre la luna mentre trasporta fuori dal pozzo della solfatara l’ennesimo sacco ripieno del minerale con cui si annuncia il diavolo dell’inferno. Sì, perché, nel mio piccolo, sono convinto che il vero poeta ha a che fare col soprannaturale, o, se volete, con l’iperuranio al quale perviene dopo lunga prigionia e drammatica conversione e quando, doverosamente ridiscenderà sulla terra per aiutare i compagni a rifare la stesa esperienza divina, non riceverà quasi mai lodi e onori, ma insulti anche pesanti che spesso gli renderanno impossibile la vita, fino a ucciderlo. 

Così che, quando mi trovo di fronte ad artisti e soprattutto poeti dei nostri giorni, che ricevono onori e lodi, che siedono sempre ai primi posti e a cui si offrono i migliori bocconi e pubblici additamenti di grandezza, non so perché mi vengono in mente i due sarti di “I vestiti nuovi dell’imperatore”. Papa Bergoglio dice che il linguaggio ipocrita è segno di corruzione. E ipocrita è tutto ciò che è finalizzato ad appagare il proprio egoismo nascondendosi. Ipocrita significa appunto, “giudicare sotto”, tenere gli occhi bassi per non farsi “leggere”. In questo senso il poeta vero è un ingenuo, proprio come il Nostro, Cesare Galligano. Ma ingenuo non nel senso comune, ma in senso etimologico, “nato libero” e, soprattutto rimasto libero durante il suo percorso. E’ ben vero, caro Cesare, che i poeti “veri” come tutte le figure sociali che sono persone “autentiche”, appartengono alla grande moltitudine di quelli che hanno scritto, e scrivono ancora per il futuro dell’umanità,  la storia dello “spirito”. Storia dello “spirito”, che per noi di quest’epoca, che ci sentiamo come la vigilia dell’Apocalisse, poggia sulla Croce che duemila anni venne eretta sulla collina del Teschio. Quelli che invece fanno la storia della “carne”,  stanno sottoponendo l’intera umanità, e quindi anche se stessi, ad una sofferenza inutile e senza speranza.

E, poi, il poeta vero è il “povero”, libero come l’ingenuo, che non si può costringere con lusinghe e minacce. Quel “povero”, di cui tanto si parla in questi giorni sotto l’incalzare di Papa Bergoglio. E’ proprio vero, i poveri anzi i poeti salveranno il mondo.Via, Cesare, continua il tuo viaggio difficile e pieno d’insidie, quasi sempre senza una strada segnata sulla mappa, come nel deserto del Sahara o in quello del biancore accecante delle “nevi eterne”. “Prendimi per mano/ e portami ancora lontano,/ portami dove il sole oscurava i nostri occhi al tramonto/ e infiammava i nostri volti/consumandoli come stoppie d’Agosto…”.,  “Aurora” p. 8. Ma non preoccuparti di essere soprattutto un buon letterato, nel senso di esprimerti bene in italiano. Ne sanno qualcosa, ad esempio, il Bembo o Vincenzo Monti, professoroni del poetare. 

Orazio infatti avverte: “Non satis est pulchra esse poemata; dulcia sunto/ et, quocumque volent, animum auditoris agunto./ Ut ridentibus arrident, ita flentibus adsunt/ humani voltus: si vis me flere dolendum est/  primum ipsi tibi…”,che suona così nella nostra “italica favella”: “Non basta che la poesia sia bella; dev’essere dolce in maniera da spingere dove vuole l’animo dell’ascoltatore. Il nostro volto come si mostra sorridente a chi sorride, così si riga di lacrime davanti a chi piange: se vuoi dunque ch’io pianga, devi provare dolore prima proprio tu”. Sicché, se è vero che il poeta “crea” il bello, che poi è il vero, che poi è amore, è necessario che il vero poeta dovrà essere capace di soffrire, perché solo nella sofferenza ci si avvicina alla verità. 

Ma evidentemente, non tutti  abbiamo lo spessore adatto per farlo, preferendo molto spesso inseguire qualcosa di meno costoso, come un applauso, una bella figura, se non proprio qualcosa di più consistente che ci faccia trascorrere l’esistenza “sanza ‘nfamia e sanza lodo”.

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