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4 minuti per la lettura
Colui che non si preoccupa di quello che mangia non saprà preoccuparsi di nient’altro.
Samuel Johnson, in James Boswell, Vita di Samuel Johnson, 1791

E’ giunto il momento di farlo. Ho deciso di parlare di me. Ah, già lo faccio sempre. Stavolta lo faccio di più, cioè non parlo di me in quanto tale,  in libertà, ma di una cosa che ho fatto: curare un libro. Insomma, un piccolo spazio (molta emozione) pubblicità. 
Il libro non è solo opera mia, ma anche e soprattutto di Nicola Fiorita, uno con tante idee, mille progetti e entusiasmo. Di sfuggita è anche un giurista e il presidente di Slow Food Calabria. Un giorno Nicola incontrò il direttore del Quotidiano, Matteo Cosenza,  gli propose un’idea, mettere su una serie di puntate per il Domenicale, l’inserto culturale del giornale, su cibo, tradizioni, Calabria. 
L’idea piacque e la palla passò a me. Cominciò l’avventura, sette pagine per cinque uscite. Spalmate nell’arco di un paio di mesi. 
Non pago, Nicola pensò che da quelle pagine si poteva tirare fuori un libro. Trovò un editore, Città del Sole. Ci mettemmo a lavoro. Non soddisfatti, scrissi anche una veloce introduzione. 
Questo è il risultato. Un libro agile, di facile ma pensata lettura. Ah, i proventi sono destinati a un progetto per sostenere le comunità del cibo in Marocco. Quindi, come diceva Sofia nostra: Accatatvell (e ja – io).
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Poichè l’ego non si misura in battute vi spammo di seguito l’introduzione da me medesima scritta.

Se è vero che siamo quello che mangiamo allora io sono calabrese. Lo sono per nascita, benché meticcia (con un padre veneto e un nonno piemontese), ma di più lo sono per “cibo”.  L’ho scoperto per merito di Nicola Fiorita, presidente della condotta Slow Food di Catanzaro, e grazie all’iniziativa messa in piedi con il Domenicale,  l’inserto culturale del Quotidiano della Calabria. Cinque uscite a cadenza, più o meno mensile, in cui si è parlato di materie prime, olio, pesce, formaggio, osterie, libri, cinema, poesia e buon bere.  Con calma e passione.
A casa mia pensavo non si mangiasse calabrese, non nel senso stretto. Invece si mangia calabrese in senso lato. Per qualità e abbondanza (eh). Nella scelta di cosa portare in tavola, nella cura del particolare, nell’artificio della presentazione, nell’artistica mescolanza di povero e ricco, ma soprattutto nel gusto del mangiare. Che è tutto un piacere. Assaporiamo lenti, ci sediamo di fronte a tavole imbandite, anche se di una fresella, ma conzata con arte. Riti e ritmi. Lontani, dal passato e a un passo dal futuro. Una terra di mezzo del palato. Il divenire del sapore.  

A casa mia, una volta, si faceva la salsa. Ci mettevamo al lavoro tutti, maschi e femmine. Mi ricordo ancora la festa quando arrivavano le cascette di pomodori, rossi e succosi. Le sceglieva mio nonno, con le “donne” di campagna, quelle che poi raccoglievano le olive, quando ancora era lavoro da raccoglitrici, dignitose e fiere. Le cassette arrivavano e venivano sommate una sull’altra. Profumavano, legno e sudore. Fatica e mani bianche, quelle che ti venivano mentre li pelavi, i pomodori. Sapevano di fatica. Io ero bambina, saltavo da una parte all’altra e vedevo solo il divertimento. Mia madre meno (…). Mi ricordo ancora di una volta, alla fine del lavoro, tutte noi raccolte intorno al gigantesco pentolone che bolliva con le bottiglie dentro. Faceva freddo quella sera, avevamo avvolto mia nonna dentro un enorme scialle di candida lana bianca, e noi intorno a lei, mani bianche, fazzoletti in testa, stivali ai piedi. Le bottiglie bollivano e mio nonno Aldo contava quelle che sentiva si stavano per frantumare e rucculiava “lo dicevo io, non andava fatto così, mia madre ai suoi tempi…”. Poi sono passati anche questi, di tempi. La salsa, ora la compriamo. E non è più la stessa cosa. Tempi da recuperare. Tempi da far tornare. Lentezze da rivivere.  Odori da risentire. Affetti da resuscitare. 

Nicola, chiedendomi, con estrema cortesia, e per questo lo ringrazio, di scrivere questa piccola presentazione mi ha fatto tornare in gola un universo di sapori che avevo ingoiato, ma mai digerito.  Come me li hanno fatti tornare in mente le pagine da cui questo libro prende vita. Pagine che ho curato, amato, titolato, letto, odorato, gustato quasi. Pagine che ho visto nascere e crescere fino al momento di lasciarle andare mandandole in stampa. Pagine per la cui grafica mi corre l’obbligo di ringraziare Alessandro Cesario e Francesca Faillace del Quotidiano della Calabria, senza il cui apporto ben poco del lavoro prodotto e raccolta da Nicola e da me assemblato, avrebbe avuto la possibilità di essere letto. Un doveroso ma non scontato ringraziamento anche a Matteo Cosenza, che del Quotidiano è l’illuminato direttore.
“Mangiare è una piccola cosa buona”, scrive Raymond Carver, recuperare il gusto delle buone cose calabresi, leggendo il libro e dando una mano a Slow Food è una piccola cosa buona per il cuore. 
Che batte sempre sincopato in Calabria. 
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