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QUANDO avevo dieci anni, e toccava a me accompagnare mio padre in campagna – lui che, nonostante l’impiego nell’industria, il suo legame con la terra non lo ha mai perduto – trascorrevo le ora con la testa altrove (cosa che mi è costata l’indissolubile reputazione di scansafatiche e di “milord” destinato ai lavori intellettuali). Pensavo tutto il tempo ai compagni di classe, a quello che stesse succedendo in quel momento nel mondo urbanizzato. Dove il mondo urbanizzato era al più la piazza di un piccolo centro, nella provincia della provincia. Detestavo il silenzio di quei luoghi; non sopportavo il fango che si appiccica alle suole nelle giornate di pioggia. Quando mio padre mi ha poi donato un pezzo di quella campagna, con una minuscola casetta rurale annessa, qualcosa è cambiato. Erano gli anni in cui vivevo a Milano, e quel “porto” a cui tornare mi faceva smaniare. Oggi che lì, nella casina delle lumache – l’abbiamo chiamata così perché la prima estate, all’arrivo per le vacanze, io e Roberta la trovammo invasa da miliardi di lumache che si erano appiccicate ai muri; e qualcuna ancora resiste – ci andiamo, ci vado spesso, mi riconosco. Lì, mollo tutto. 
Mollare, certo, significa prima di tutto allentare, cedere, desistere, rinunciare. Ma si mollano anche gli ormeggi, per partire, per dare corda sciolta a manovre nuove, a virate improvvise. Dunque, a discapito del titolo, non è di abbandoni o sconfitte che vorrei parlare, ma di riconquiste, riconciliazioni. Insomma: di una specie di resistenza, quella che conoscono, appunto, certi contadini che con gli umori delle stagioni – anche imprecando – sanno convivere.  
Insomma: questo vorrebbe essere un blog sulla memoria, qualunque tipo di memoria; quella che si attacca alle cose come una patina sottile, quasi invisibile. Quella memoria labile – perché penso alla brina nell’attimo prima che il sole appena levato stia per cancellarla? – che solo nell’orto di Joggi riesco a ritrovare, dopo che ho mollato tutto.  Perciò, consentitemi questi pensieri in libertà sulle soddisfazioni, frustrazioni, aspirazioni e delusioni di un quarantenne che – come questi tutta la sua generazione – dall’infanzia  si è ritrovato vecchio senza essere passate per la fase intermedia (che, mi hanno detto, è l’età cosiddetta adulta) e ora come tutti gli anziani di campagna non parla d’altro che di semina, parassiti, fiori e frutti. Insomma: un blog sul gusto indicibile di coltivarsi le cose e riconciliarsi coi padri.
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