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L’anno scorso, a Montreal, la affascinante direttrice dell’hotel mi ha portato sul tetto del Queen Elizabeth per mostrarmi il suo orto, decisamente postmoderno. Al Cairo – apprendo ora – mentre sulle strade infuriava la rivolta di piazza Tahrir sui tetti della città si moltiplicavano gli orti di sussistenza. A Detroit, la città dell’automobile, schiacciata dalla crisi che va avanti dal 2008, si sono diffusi i “community garden”, leggo.
Che sia un vezzo, un lusso, una moda, un bisogno o no, poco importa. Quel che conta – ed è certo – che una rivoluzione è cominciata. Qualcuno la chiama “la rivoluzione della lattuga” (Franca Roiatti, Edizioni Egea); qualcun altro, con più pretese, “democrazia alimentare urbana”. Le forme che assume sono innumerevoli: forme di produzione e consumo che hanno un indubbio valore economico, ma anche sociale e culturale (coscienza alimentare e ambientale, condivisione e trasmissione dei saperi).
Mio padre è convinto – me lo ha detto ieri mentre raccoglievamo le olive da portare al frantoio – che solo un orto ci potrà salvare. Una specie di bene-rifugio per le famiglie?
Non lo so. Se faccio due conti mi accorgo, con facilità, che un litro d’olio alla fine mi costerà tre volte quello che lo avrei pagato in qualunque supermercato. E mi domando: come fanno a venderlo a così poco? Non voglio risposte… Tanto più che chi non ha un uliveto non ha scelta.
Dove porterà la rivoluzione della lattuga, scrostata da tutti i fenomeni di moda, non lo so – e il discorso sotto l’ulivo, con mio padre, si è interrotto prima che approdasse a previsioni su scenari possibili.
I piani urbanistici di moltissime città “evolute” ormai danno per scontato l’esistenza di aree di coltivazione per i cittadini che ne fanno richiesta. E da noi? Dobbiamo aspettare che si organizzi il movimento di occupazione degli orti comunali o il fronte di liberazione dei contadini urbani?

 

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