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Il vecchio trattore Fiat-Agri è parcheggiato nel fienile sgarrupato; le sparute galline sono rinchiuse in una porcilaia in disuso – perché ormai è vietato allevare animali -; l’orto con broccoli e rape è costretto in pochi metri quadri e la fossa del letame è un campo di nessuno. Al di là della barricata di ondulina metallica sfavillano i palazzo della Bcc Madiocrati, della Conad, dei carabinieri e sfilano le macchine di viale parco.
In linea di principio sono contrario agli orti urbani, alla campagna portata in città. Perché la campagna deve restare in campagna; altrimenti, come si farà a dire “vado in campagna” quando si vorrà fuggire dalla città? E sono anche decisamente contrario – e non solo in via di principio – a che la città vada in campagna. Ma è successo, drammaticamente.
Così la storia dei luoghi, l’identità delle persone ha insomma finito per non contare più nulla di fronte all’interesse dei costruttori o di amministratori comunali che ritengono di fare la felicità di tutti trasformando terreni agricoli in suoli edificabili. «Ma valgono di più» dicono i semplici, senza contare che per alcuni, specie a una certa età, i soldi non valgono proprio niente. Eppure sono l’unica cosa che possono prendere visto che, se non vendono, coltivando quei terreni non guadagnerebbero neanche il necessario per pagare l’imposta municipale sugli immobili.
Ieri sono andato a zonzo per la città e ho visto scene alle quali l’occhio urbano è ormai disabituato: anfratti di ruralità accerchiata, decadente e affascinante, circondata dai tralicci delle gru e dal cemento della speculazione edilizia. Come fortini assediati, nonostante tutto, resistono. Ma a caro prezzo; e giusto per testimoniare che «qui, una volta, era tutta campagna».

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