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Quando era ragazzino – più o meno all’epoca in cui il banalissimo dialogo tra Benjamin Braddock (Dustin Hoffman) e l’amico del padre, ne “il laureato” di Mike Nichols, non aveva ancora assunto il rango di profezia – l’arrivo della primavera era segnalato dal tintinnio dei boccacci (vasetti di vetro, per chi vive da Roma in su) nei quali mio padre custodiva i semi selezionati nella stagione precedente (all’epoca non capivo perché bisognasse sacrificare il primo pomodoro, il più bello della pianta, per “il futuro”). Il suo solito blaterare sulla dubbia qualità della selezione e della conservazione, sulle quantità da mettere a “provino”. Era quello il segno che si ricominciava a ripiantare (e che, dannazione, nel momento più bello dell’anno – la fine della scuola – toccava ricominciare ad accompagnarlo in campagna).
Oggi mi accorgo invece che è arrivato quel momento solo dalle “padelle” di polistirolo (nelle quali sono allevate le piantine in vendita da vivaisti e ferramenta) disseminate nei terreni, per le strade e nei fiumi. «Plastica, Ben. Il futuro è nella plastica».
Dunque, in pochi anni, siamo passati da una condizione ideale, in cui i contadini (ma anche i semplici ortisti come mio padre) conservavano e si scambiavano le sementi o le piantine già nate – e spettava a me portare quelle di cipolla rossa a zio Pantaleo e tornare con quelle di peperone roggianese avvolte in una pezza umida – e la diversità genetica dei prodotti della terra, a una situazione in cui – il futuro è arrivato – i semi “standardizzati” sono quasi esclusiva proprietà delle multinazionali e ai contadini resta solo il polistirolo abbandonato negli orti che ormai sembrano discariche.

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