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Non sono ancora un uomo morto, purtroppo; al massimo sto poco bene. Lo dico perché quando avevo l’età in cui per condurmi in campagna con lui mio padre doveva ricorrere a ogni allettante espediente (come lasciarmi guidare la nostra Fiat 850 azzurro-cielo-sovraesposto) gli sentivo ripetere spesso il detto “nella vigna e nell’orto ci vuole l’uomo morto”.
E la capivo tutta, perfettamente, quella espressione vera e insopportabile: essere lì invece che a scorrazzare con coetanee sulla mia vespa 50 special era davvero un morire; di una morte straziante.
Oggi, che guidare mi annoia un po’ e la vecchia vespa non c’è più, capisco il vero senso di quelle parole: la cura delle piante, la manutenzione dei muretti a secco e dei filari, la consacrazione a quel mondo vegetale creato apposta ti assorbe completamente, senza accorgertene. Tanto che la vita (sociale) dell’uomo dedito all’orto (e alla vigna), se davvero vi si dedica, è ridotta a un nulla: è seppellito in quella terra che a ogni ora reclama qualcosa. Almeno questo dice quella frase. Ed è questo che ha tenuto lontano dalla terra almeno due generazioni  potenziali contadini.
Ma non so se sia poi, davvero, così; se sia stato un buon motivo per abbandonarla.  Di certo ho visto più gente morire (socialmente) prendendosi cura di un’officina meccanica, di una rivendita di tabacchi, di un ristorante; a scuola tra ragazzini indifferenti e nelle redazioni dei giornali. E ovunque ci sia una catena di montaggio.
Non vorrei sembrare uno che ancora cita il barbuto di Treviri, ma tra l’essere morto (nel senso del proverbio) e l’essere alienato (in senso marxiano) preferisco il decesso. E così la pensano tanti “contadini di ritorno” che stanno lentamente tentando… di ammalarsi almeno un po’.

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