3 minuti per la lettura
Quando il bambino era bambino, | se ne andava a braccia appese, | voleva che il ruscello fosse un fiume, | il fiume un torrente, | e questa pozza, il mare. || Quando il bambino era bambino, | non sapeva di essere un bambino, | per lui tutto aveva un’anima | e tutte le anime erano un tutt’uno. || Quando il bambino era bambino, | su niente aveva un’opinione, | non aveva abitudini, | sedeva spesso a gambe incrociate, | e di colpo sgusciava via, | aveva una vortice tra i capelli | e non faceva facce da fotografo.|| Quando il bambino era bambino,| era l’epoca di queste domande:| “Perché io sono io e perché non sei tu?| Perché sono qui e perché non sono li?| Quando comincia il tempo, e dove finisce lo spazio?| La vita sotto il sole è forse solo un sogno?| Non è solo l’apparenza di un mondo davanti al mondo quello che vedo, sento e odoro?| C’è veramente il male e gente veramente cattiva?| Come può essere che io che sono io non c’ero prima di diventare?| E che una volta io che sono io non sarò più quello che sono?”
Per tutta l’estate ho avuto in testa il cruccio – e la conseguente frustrazione per non esservi riuscito – di fare un’intervista a un noto magistrato, e prolifico scrittore, che fa anche l’orto. Frustrazione cresciuta a dismisura quando, nel tentativo di convincerlo a lasciarsi intervistare (e magari lasciarmi vistare il suo orto), mi ha spiegato che quello è rimasto il suo ultimo avamposto di intimità: l’ultimo angolo di terra in cui il noto magistrato, libero della sua scorta, il famoso scrittore, torna se stesso, solo; alle origini, bambino; alla semplicità dei gesti terra terra. Non immaginate che cosa possa significare per un giornalista intravedere una possibilità del genere e non poterla narrare; tanto che – lo ammetto – ho anche pensato all’idea di una intervista inventata (dichiaratamente inventata) o costruita sulle poche cose dettemi per giustificare il rifiuto alla mia offerta. Ma ho desistito, fortunatamente; ed ecco perché non voglio neanche svelare il nome del personaggio.
Ma stanotte, verso le quattro, questa storia mi è tornata in mente, con un senso di colpa: aver ceduto all’empatia dell’uomo che nell’orto (come quel magistrato) ritrova la sua più profonda intimità, a scapito del mandato professionale. Conosco bene, infatti, la condizione di chi nell’orto si mette a nudo. O lo diventa suo malgrado. Come l’angelo Damiel che cade, di carne e sangue, nudo su quella terra che ha deciso di vivere da essere umano.
Ecco, ogni volta va a finire così: un pensiero mi assale, all’improvviso, di notte e puff, resto sveglio per ore, con la mente che vaga e pesca nello scantinato dei ricordi… Alle sei Nick Cave cantava your funeral my trial; Bruno Ganz faceva volteggiare, appesa alla corda, la bella Solveig Dommartin che diceva «Non me l’ero figurata così la fine del circo».
Nemmeno io.
TI potrebbe interessare
COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA