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Io penso e parlo in calabrese, è più veloce, è più comodo. Quando devo imprecare lo faccio in calabrese. Chissà quanti morti che t’è muort, morti ‘e mammete o vai a fare in du culu ho tirato durante la mia carriera.
Questo post è una dichiarazione d’amore. L’amato è Rino Gattuso. L’ex calciatore, l’allenatore esonerato, il Ringhio nazionale. L’uomo venuto fuori dalle favelas scavoneiote. L’ho incontrato nel 2007. Girava uno spot per la  Gillette. Lo spot girò anche sul web, dove partì una campagna: #InritiroconGattuso. Il plot era Rino in sciopero della barba, fino all’11 febbraio, giorno in cui si sarebbe rasato, nella sua Schiavonea. Io fui mandata a seguirlo mentre, segretissimamente, girava alcune scene. Pur abitandoci a meno di un quarto d’ora quella fu la prima volta che misi piede al porto di Corigliano. Pioveva. Io ero più giovane e vanitosa. Avevo ombrello e borsa Burberry (quando sono a casa svaligio volentieri l’armadio della genitrice) in testa una cloche impermeabile tutta un leopardo e un cappottino cammello. Arrivata lì cominciarono a rimbalzarmi da un dock a un altro (vabbè, magazzino, sì) a ogni mio passaggio seguivano risate e frasi in un linguaggio, a me bizantina doc, semisconosciuto. Finalmente li trovai. Mi scambiarono per una giornalista milanese di Sky (signoria mia, la bistrattata stampa “locale”) e mi fecero passare. C’era Ringhio con i suoi amici di sempre. Rideva e scherzava in dialetto e non con quell’italianoski semi milanese in uso per essere socialmente accettato. Cambiò tono solo quando mi vide. Fu un pomeriggio spettacolare. Di calcio non capisco nulla, tifo Roma per amore fraterno, ma lui è un campione. E’ caduto, si è fatto male e si è rimesso in piedi. Più volte, come quando stava perdendo la vista. Ringhio è uno di noi. Uno che non molla.

Io penso e parlo in calabrese, è più veloce, è più comodo. Quando devo imprecare lo faccio in calabrese. Chissà quanti “morti che t’è muort”, “morti ‘e mammete” o “vai a fare in du culu” ho tirato durante la mia carriera (Rino Gattuso)

Questo post è una dichiarazione d’amore. L’amato è Rino Gattuso. L’ex calciatore, l’allenatore esonerato, il Ringhio nazionale.
L’uomo venuto fuori dalle favelas scavoneiote. L’ho incontrato nel 2007. Girava uno spot per la  Gillette. Lo spot era nato sul web, dove partì una campagna: #InritiroconGattuso. Il plot narrava di Rino in sciopero della barba, fino all’11 febbraio, giorno in cui si sarebbe rasato in pubblico, nella sua Schiavonea. Io fui mandata a seguirlo mentre, segretissimamente, girava alcune scene. Pur abitandoci a meno di un quarto d’ora quella fu la prima volta che misi piede al porto di Corigliano. Pioveva. Io ero più giovane e vanitosa. Avevo ombrello e borsa Burberry (quando sono a casa svaligio volentieri l’armadio della genitrice) in testa una cloche impermeabile tutta un leopardo e un cappottino cammello. Arrivata lì cominciarono a rimbalzarmi da un dock a un altro (vabbè, magazzino, sì) a ogni mio passaggio seguivano risate e frasi in un linguaggio, a me bizantina doc, semisconosciuto. Finalmente li trovai. Mi scambiarono per una giornalista milanese di Sky (signoria mia, la bistrattata stampa “locale”) e mi fecero passare. C’era Ringhio con i suoi amici di sempre. Rideva e scherzava in dialetto e non con quell’italianoski semi milanese in uso per essere socialmente accettato. Cambiò tono solo quando mi vide. Fu un pomeriggio spettacolare.
L’ho rivisto tempo dopo, inaugurava un’azienda ittica. L’occasione era formale, c’erano politici e quello che ne consegue. Era più serio. Compassato.
Gli voglio tanto bene che gli ho pure perdonato quel bruttobruttobrutto spot per la Calabria e solo perché ci metteva il cuore, sia chiaro.
Di calcio non capisco nulla, tifo fortissimamente Roma per amore fraterno, ma lui è un campione.
E’ caduto, si è fatto male e si è rimesso in piedi. Più volte, come quando stava perdendo la vista. Ringhio è uno di noi. Uno che non molla.

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