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Devo farmi un orto portatile; tipo: “a rimorchio”. Perché è un controsenso mollare tutto e avere un orto che ti vincola, che ti costringe in un luogo preciso (che per me è Joggi).
È che sto cercando l’alternativa nomade che si concili con l’idea di avere radici.
Quando eravamo sotto le armi (mi piace questa espressione, romantica e letteraria, per dire “quando facevamo il servizio militare, a Cassino) il mio caro amico Salvatore, che avevo soprannominato Milton perché nella mia mente avevo dato la sua fisionomia al protagonista di “Una questione privata” di Beppe Fenoglio, mi regalò “Anatomia dell’irrequietezza” di Chatwin pubblicato (postumo) l’anno prima che raccoglieva una serie di scritti inediti o pubblicati su riviste composti dall’autore inglese tra gli anni ’70-’80. All’epoca Bruce descriveva perfettamente il mio sognato futuro da zingaro, ma già all’epoca avvertivo che le mie radici erano scese molto in profondità nella terra in cui ero cresciuto. E così il mio pellegrinaggio è durato ben poco.
Ogni volta che qualcuno molla tutto – o semplicemente asseconda la propria irrequietezza – e parte, penso alle sue radici. E mi chiedo che ne sarà. Ma soprattutto, mi chiedo cosa siano le radici; si possono portare in giro? O è solo una stupida metafora inventata da pigri sedentari a difesa di una società pigra e sedentaria?

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