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Ieri un signore è venuto a trovarmi nell’orto. Mi ha detto: “passavo di qua molti anni fa, con mio figlio; e c’eri tu con tuo padre…”. “No, guardi – gli ho risposto – non ero io”. “Ma non sei il figlio di…?”. “Sì, è vero. Ma non ero io”.
Mi spiego: non sono io, ora, quello che quasi trent’anni fa era lui: il ragazzino che andava nell’orto col padre. E non oso immaginare cosa potrebbe dire di me se mi vedesse qui, adesso, a smenare per pomodori e lattughe. Ho un vago ricordo di cosa pensasse di suo/nostro padre che a quarant’anni non vedeva l’ora di scendere giù al fiume, dove c’era l’orto acquatizzu. E se mi fermo un po’ a pensare rivedo la sua figura smilza e scapigliata; le sue unghie sporche del grasso di un motorino che non andava mai; i piedi nell’acqua e la mente che vaga al di là del boccaporto che conduce al sopramondo; il segno di cinque dita in faccia per averle appena prese (in questo doveva esserci il presagio del destino da giornalista).
Certo: io lo riconoscerei; riconosco in me qualcosa di lui. Ma non credo che lui mi riconoscerebbe. Né approverebbe l’adesione a uno stile di vita in cui esiste lo spazio per un orto.
Ma per fortuna non incontriamo mai le persone che siamo state: ogni volta rischieremmo la rissa o, comunque, sgradevoli situazioni. 

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