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Parlando col mio amico Rodolfo, che di queste cose se ne intende, ho capito perché non scriverò mai un libro; o comunque perché non amo farlo: c’è quel qualcosa di definitivo, nei libri, che li fa somigliare alla morte. “I libri sono il sempre” ha scritto Erri De Luca intendendo, suppongo, che contengono cose che superano la temporaneità della vita di chi li legge. Io non amo, forse perché non ho (con grande invidia per chi la possiede) verità e certezze così durature. Ho bisogno di correggere la rotta ogni giorno: quel che ho scritto ieri, oggi mi pare parziale, poco rigoroso; certe volte anche poco onesto. Insomma: falso. Rodolfo dice che è per via della mia geneaologica relazione con la terra: è l’orto che ti insegna a non considerare nulla di definitivo; nessuna verità è per sempre (sempre che esistano verità, da qualche parte): basta la minima variazione nelle isobare della stagione, uno scarto impercettibile nella temperatura media del mese a mandare in frantumi una certezza. In effetti è così. Per questo amo quella specie di rassegnazione contadina, quella umanità che ristagna negli orti e che, anche bestemmiando a mezza voce, ricomincia ogni giorno a scrivere l’unico libro che vale davvero la pena scrivere. 

Ho capito quel che già sapevo al tavolo di una vecchia osteria milanese dove andava anche – sostiene Rodolfo, che di queste cose se ne intende – Dino Buzzati, con gli altri colleghi del Corriere.

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