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Amo il ronzio del decespugliatore. Lo amo perché mentre lo utilizzo il mio cervello va – come si dice in acustica – in risonanza con il suo ritmo monotono e naviga per miglia e miglia – senza muoversi dal quel metro quadrato che sto rasando. Una specie di estasi. Una parentesi di vuoto assoluto nel resto di un’esistenza (addirittura un’umanità) desiderante.
Ora, non voglio tirare fuori la solita solfa di Epicuro, Sant’Agostino e Lacan. Però, in quel frangente ci intravedo un barlume di felicità; una vertigine di consapevolezza che la felicità più grande sia non desiderare niente, neanche la felicità stessa. E la felicità è, semmai, una felicità a posteriori; un ricordo: pur non sapendolo ero felice, mentre tagliavo l’erba. Non succede sempre così, con la felicità? Non ci rendiamo conto di esserlo stati solo quando non lo siamo più? Quado è passata?
No: la gioia è un’altra cosa…
Ma perché la risonanza avvenga il decespugliatore deve essere perfettamente a punto. Deve cantare!  Il cicler del carburatore pulito e l’acceleratore che sa tenere il minino. Ieri, c’era qualcosa che non andava e mi ci è voluto un goccio di olio nella benzina per ridare armonia al rombo monocorde del mio Husquarna. E la vita, poi, è tornata a sorridere.
Naturalmente, se non avete un decespugliatore e un orto da decespugliare, potete ricorrere al phon: a me fa lo stesso effetto ipnotico; ma per la felicità funziona un po’ meno. E se invece, non vi va di usare l’asciugacapelli – ché d’estate fa caldo – mollate tutto e smettete di desiderare di essere felici. Forse lo sarete.

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