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Il procuratore di Salerno Giuseppe Borrelli

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COSENZA – I magistrati calabresi accusati da Marco Petrini di far parte della massoneria deviata sono stati tenuti a lungo sotto controllo con intercettazioni telefoniche e ambientali, ma tale attività «non ha sortito esito positivo».

Come anticipato ieri, infatti, le confessioni dell’ex giudice – subito ritrattate – e la successiva smentita al suo racconto operata da Emilio Santoro non hanno scoraggiato più di tanto gli investigatori campani, che un potenziale riscontro all’esistenza di quella loggia coperta con sede a Catanzaro nello studio dell’avvocato Giancarlo Pittelli, indicato da Petrini come «cerimoniere» della confraternita, lo hanno cercato in lungo e in largo.

Anzitutto con le intercettazioni, rivelatesi sì un buco nell’acqua, ma con un’avvertenza: gli indagati potrebbero essere stati «consapevoli del rischio» poiché «messi in allarme» da un articolo apparso il 17 gennaio del 2019 sulle colonne del Fatto quotidiano che annunciava l’apertura di un’indagine a carico di toghe del distretto catanzarese.

A ciò si aggiunge anche l’emergenza sanitaria, con conseguenti periodi di lockdown che, sulla carta, potrebbero aver «ridotto, se non annullato del tutto» le possibilità d’incontro fra i bersagli designati. Insomma, doppio alibi per un fallimento.

A poco è valso anche il materiale investigativo trasmesso a Salerno dalla Procura di Catanzaro. Pure in questo caso parliamo di intercettazioni eseguite nell’ambito di “Rinascita Scott” a carico di Pittelli, con particolare riferimento a una cena «per soli uomini» che l’ex parlamentare di Forza Italia organizza a casa sua a marzo del 2018: una decina di persone in tutto, fra cui alcuni colleghi avvocati e tre giudici catanzaresi. Quella sera, lo spyware installato sul cellulare dell’anfitrione fa il proprio dovere, catturando tutte le conversazioni del convivio, ma senza «evidenziare profili di rilevanza penale».

A tavola si parla di liquori, cibo, politica, delle stragi del ’93 e anche del fenomeno della prostituzione, ma senza il benché minimo accenno ad accordi illeciti fra toghe. A un certo punto, i giudici commentano – forse negativamente – l’operato di alcuni loro colleghi non presenti in sala, circostanza che suggerirà alla Procura di esprimere biasimo per l’eccessiva confidenzialità e per il «quadro nebuloso di contatti» fra avvocatura e una certa magistratura, «certamente non in linea con i doveri di riserbo propri del ruolo del magistrato». Di associazioni segrete, però, nisba. Neanche l’ombra.

L’ultima carta, allora, è rappresentata dai pentiti. Prima di arrendersi e chiedere l’archiviazione del caso, l’ufficio del procuratore Giuseppe Borrelli ne ascolta sei: Pasquale e Giuseppe Giampà, Raffaele Moscato, Andrea Mantella, Gennaro Pulice e Cosimo Virgiglio. Nessuno di loro regalerà spunti tali da far decollare l’inchiesta, solo particolari utili a ricostruire in modo generico il funzionamento delle logge occulte in Calabria.

È il caso di Virgiglio, uno che la massoneria l’ha conosciuta bene a partire dal 1992 e fino al 2008, epoca in cui inizia a collaborare con la giustizia. Oltre a indicare nuovamente «in Vibo Valentia» la capitale calabrese della fratellanza, il rosarnese dice anche qualcosa di rivelatore sul modus operandi delle logge segrete: «Il fine principale – spiega – è la conservazione dei beni. L’obiettivo è quello di intervenire sui magistrati che si occupano delle misure di prevenzione. Dico questo perché alla ‘ndrangheta non interessa tanto intervenire sulle condanne, piuttosto sulla conservazione dei beni. Tuttavia, per le condanne, il meccanismo illecito si concentrava soprattutto con l’intervento in Appello».

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