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Domenico Tallini

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CATANZARO – Ha parlato cinque ore passando in rassegna tutta una serie di intercettazioni telefoniche per arrivare alla conclusione che non ci fu alcun appoggio elettorale da parte della cosca Grande Aracri di Cutro alle elezioni regionali del 2014 nei confronti dell’ex presidente del consiglio regionale della Calabria Domenico Tallini.

Nel processo col rito abbreviato scaturito dall’inchiesta che poco più di un anno fa portò all’operazione Farmabusiness, ha preso la parola, davanti al gup distrettuale di Catanzaro Barbara Saccà, uno dei difensori del noto politico catanzarese, l’avvocato Vincenzo Ioppoli (l’altro difensore, l’avvocato Carlo Petitto, era intervenuto precedentemente). Nella sua lunga disamina, l’avvocato Ioppoli ha anche contestato quanto affermato dal coimputato di Tallini Giovanni Abramo, genero del boss Nicolino Grande Aracri, circa il presunto sostegno elettorale del clan, concludendo per la sua totale inattendibilità. Ma è soltanto uno dei capitoli dell’inchiesta dedicati a Tallini, nei cui confronti il pm Antimafia Domenico Guarascio ha chiesto una condanna a 7 anni e 8 mesi di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa e voto di scambio, accuse per le quali il politico finì agli arresti domiciliari, anche se il Tribunale del riesame di Catanzaro annullò nei suoi confronti l’ordinanza di custodia cautelare consentendogli di rientrare come consigliere regionale a Palazzo Campanella, nella consiliatura da poco terminata.

Una decisione confermata dalla Cassazione per cui l’avvocato Ioppoli si è rifatto in gran parte ai provvedimenti favorevoli al suo assistito. La difesa di Tallini ha evidenziato peraltro la legittimità delle autorizzazioni al consorzio farmaceutico Farma Italia, secondo l’accusa controllato dalla cosca, nell’ambito di un iter amministrativo, peraltro protattosi per 14 mesi, non di competenza del suo assessorato; autorizzazioni per facilitare le quali Tallini non intervenne, a detta del difensore, per il quale l’accusa affonderà come un «triste relitto».

Sarà il giudice a stabilire se il vascello delle accuse stia navigando in buone acque o meno.  L’inchiesta, si ricorderà,  avrebbe delineato i nuovi assetti del clan i cui vertici erano stati decapitati dopo l’operazione Kyterion del gennaio 2015, quella scattata parallelamente all’operazione Aemilia. A novembre 2020, undici persone finirono in carcere e otto ai domiciliari, tra queste l’avvocato Domenico Grande Aracri, fratello del boss ergastolano Nicolino (la cui posizione è stata stralciata): per il presunto colletto bianco del clan la pena richiesta è di 6 anni e la sua posizione sarà esaminata alla prossima udienza dall’agli avvocati Gregorio Viscomi e Salvatore Staiano; ma sono in tutto 20 le condanne proposte dall’accusa per un totale di quasi 200 anni di reclusione.

Tra i legali che hanno preso la parola anche l’avvocato Luigi Colacino, difensore di Salvatore Romano, del quale ha contestato la posizione apicale, e di Elisabetta Grande Aracri, figlia del boss di Cutro, mentre in una precedente udienza l’avvocato Sergio Rotundo aveva affrontato le imputazioni a carico della moglie, Giuseppina Mauro. L’inchiesta, infatti, avrebbe disvelato il ruolo delle donne nel clan che avrebbero rivestito una posizione di vertice nei periodi in cui i rispettivi congiunti, promotori della consorteria, erano detenuti, fornendo direttive agli affiliati, gestendo gli introiti, ricevendo per esempio il denaro dagli imprenditori omonimi Gaetano Le Rose, cugini, intervenendo per eludere le indagini sulle armi in dotazione al clan. Per la moglie del boss, in particolare, il pm ha chiesto 12 anni, per la figlia 10 ma per la difesa le donne non avrebbero agevolato l’associazione mafiosa. E’ in seguito al loro coinvolgimento che il boss aveva intrapreso un percorso di collaborazione con la giustizia, poi ritenuto inattendibile dalla Dda catanzarese proprio per il tentativo di sminuire la posizione dei suoi familiari.

Alla prossima udienza l’avvocato Carmine Curatolo esaminerà la posizione di Salvatore Grande Aracri, nipote del boss, ritenuto il dominus dell’affaire farmaceutico, per il quale l’accusa chiede 14 anni.

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