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Il dolore dei familiari delle vittime assistiti dagli operatori sociali

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RENDE – Una ferita ancora aperta. L’impatto emotivo provocato dal naufragio di Cutro fa ancora sentire i suoi effetti devastanti in chi intervenne nell’immediatezza. Otto mesi dopo, erano voci ancora rotte dall’emozione quelle che, in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico del Dispes (dipartimento di Scienze politiche e sociali) dell’UniCal hanno ripercorso le sequenze dell’incubo materializzatosi in una gelida alba di febbraio.

Il seminario interdisciplinare voluto dal direttore del dipartimento del Dispes, Ercole Giap Parini, ha avuto la finalità di interrogare una pluralità di voci esperte sul tema delle migrazioni a partire da Cutro. Nella giornata di ieri sono stati presentati i risultati di un’indagine che lo stesso direttore, a distanza di qualche settimana dall’emergenza, ha avviato con l’obiettivo di comprendere l’impatto di quella tragedia sulle professioniste e sui professionisti che in prima linea hanno fronteggiato la crisi che il naufragio aveva prodotto. L’incarico è stato affidato a Francesca Falcone, assistente sociale specialista e docente e ricercatrice dell’UniCal.

Attraversare il trauma collettivo di Steccato di Cutro: un’indagine” il tema della ricerca che ha coinvolto diverse organizzazioni e istituzioni: enti locali, agenzie dello Stato, il sistema sanitario e gli enti del Terzo Settore, e attraverso la presentazione dei risultati è stata ascoltata la voce degli operatori che hanno recuperato i corpi in acqua e sulla battigia e che hanno sostenuto e accompagnato i superstiti e i familiari nel dolore e nel difficile lavoro di elaborazione del lutto.

Non ci sono soltanto i morti in mare in seguito all’affondamento del caicco “Summer Love” schiantatosi contro quella maledetta secca. E non ci sono soltanto i parenti delle vittime, che hanno subito una perdita inestimabile, quelli le cui urla si sentivano anche fuori dal PalaMilone di Crotone durante il mesto rito del riconoscimento delle salme. Il trauma irrisolto è anche per gli operatori sociali, in ambito pubblico e non profit, per lo shock emotivo della tragedia che, nella quotidianità della vita personale e professionale, si manifesta in diversi modi, così come per volontari e forze dell’ordine impegnati nei soccorsi e nelle attività di polizia.

I modi con cui il trauma si manifesta sono evidenti dalle parole chiave che operatori e operatrici utilizzano per descrivere sensazioni ed emozioni connesse all’esperienza: morte, incubo, lutto, stesso, senso di fallimento, frustrazione. Tutte le organizzazioni e le istituzioni coinvolte nella gestione dell’emergenza sono ripartite con le attività ordinarie, che nella fase dell’emergenza erano state sospese. Ma la ripartenza contiene in sé una nuova tragedia.

«La ripresa sembra essere vissuta in maniera ambivalente: da un lato, è il ritorno ad una normalità che può curare le ferite ancora aperte, dall’altro, operatrici e operatori, soprattutto della seconda accoglienza, “riprendono” con la consapevolezza che le cose sono peggiorate a causa delle nuove politiche di questo governo – spiega la professoressa Falcone – L’impatto di queste politiche è fonte di preoccupazione, la loro ripresa è definita come “la nuova fase della tragedia”».

L’IMPATTO EMOTIVO

Provoca fatica emotiva anche il riandare con la memoria alle scene terribili materializzatesi sulla spiaggia di Steccato. La conferma è venuta dalle testimonianze dell’altro giorno. «Dal punto di vista professionale, l’impatto dell’emergenza è stato (ed è ancora) evidente nella dimensione psicologica ed emotiva dei professionisti.

Le operatrici e gli operatori sociali hanno lavorato con la disperazione e il lutto per un tempo lunghissimo e con tante persone contemporaneamente – spiega Falcone – L’elaborazione del vissuto traumatico è una questione ancora aperta e faticosa: alcuni hanno avuto modo di elaborare in parte il trauma nel momento stesso in cui l’emergenza li stava attraversando con tutta la sua potenza; altri hanno cercato di gestire razionalmente un carico emotivo con cui hanno dovuto fare i conti in un secondo momento.

Nonostante i percorsi di sostegno attivati seppure in maniera temporanea, operatrici e operatori sentono che le “ferite sono ancora aperte. Tutti e tutte riconoscono sulla propria pelle il segno che il naufragio ha lasciato, “ferita ancora aperta” – “ferita che ancora sanguina”».

BISOGNI NELLA FASE POST TRAUMATICA

Le organizzazioni e i professionisti sono ritornati alle attività ordinarie non senza la consapevolezza che oramai c’è una frattura e il ritorno all’ordinaria amministrazione non significa che tutto sia passato o dimenticato. C’è una normalità che deve essere ricostruita a partire dall’elaborazione del trauma. I bisogni prevalenti hanno a che fare con questa dimensione.

Dallo sviluppo delle competenze necessarie per il fronteggiamento di situazioni di crisi alla creazione di spazi collettivi per la riflessione e l’apprendimento dall”esperienza, emerge come il bisogno prorompente sia quello dell’elaborazione del trauma e del lutto attraverso percorsi di sostegno robusti e continuativi che possano proteggere gli operatori e le operatrici dai sentimenti, dalle emozioni e dai pensieri negativi che ancora albergano nelle pratiche professionali e organizzative. Un primo spazio per una riflessione collettiva è stato offerto proprio dall’UniCal.

DAL NAUFRAGIO DI CUTRO, SPUNTI DI RIFLESSIONE

Cutro è stata una catastrofe. E «il lavoro con e per le persone vulnerabili in situazioni catastrofiche richiede sempre uno spazio e un tempo per la rielaborazione dell’esperienza – spiega Falcone attingendo appunto alla psicologia delle catastrofi – I professionisti e le professioniste vittime anch’esse delle catastrofi hanno bisogno di azioni formative e di supervisione che possano sostenerne la resilienza, la cura di sé e le progettualità da mettere in campo nelle situazioni emergenziali.

Le catastrofi non sono apocalissi, e se il trauma viene individualmente e collettivamente affrontato ed elaborato si apre lo spazio della ricostruzione, che è un processo generativo in sé». Altra osservazione conclusiva è che è fondamentale sviluppare una cultura dell’intervento di rete in emergenza.

«Si parla di Pronto intervento sociale, peraltro come livello essenziale delle prestazioni sociali; forse dovremmo iniziare a concettualizzare un pronto intervento sociale di comunità – un Pis di rete – che si attivi in caso di crisi e che abbia al centro il coordinamento dei cari servizi e soggetti che intervengono».

Infine, uno sguardo alle “pratiche oppressive”, che la docente studia nel contesto della migrazioni forzate e individua con riferimento alla tragedia di Steccato sia nelle politiche migratorie restrittive conseguenti alla tragedia – il cosiddetto Decreto Cutro – quanto nelle sepolture musulmane in luoghi difficili da raggiungere, come il periferico cimitero nella località Serre. «Cutro ci interroga su quanto le nostre azioni sociali, professionali e organizzative possano essere, anche inconsapevolmente, oppressive.

Nelle sepolture in luoghi inadeguati e accessibili, nelle vie crucis organizzate sulla spiaggia del naufragio, fino alle restrizioni contenute nel decreto Cutro, possiamo rintracciare elementi che potremmo ribricare come possibili pratiche oppressive. Qui l’intervento non può essere legato all’emergenza ma alla pratica ordinaria. Investire in formazione per sviluppare pratiche professionali e organizzative anti-oppressive può creare e sostenere quella cultura che evita manifestazioni, tutte in buona fede, che possono promuovere un etnocentrismo percepibile come fonte di oppressione».

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