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«LA TEORIA della calunnia e del complotto è rimasta totalmente indimostrata». Lo hanno scritto i giudici della Corte di Appello di Catanzaro (Donatella Garcea presidente, Alessandro Bravin e Vincenzo Galati consiglieri) nella sentenza, depositata in questi giorni, con la quale sono state confermate le condanne per padre Fedele (a 9 anni e 3 mesi) e il suo segretario Antonio Gaudio (a 6 anni e 3 mesi) per i presunti abusi sessuali all’interno dell’Oasi Francescana di Cosenza. Abusi che si sarebbero materializzati tra il febbraio e il giugno del 2005 e che hanno visto come vittime suor T. (cinque gli episodi contestati a padre Fedele, uno a Gaudio) e una giovane ospite della stessa struttura d’accoglienza (con imputato il solo Gaudio). 

Padre Fedele aveva insistito molto sulla tesi del complotto, ossia sulle accuse di violenza sessuale inventate ad arte per allontanarlo definitivamente dall’Oasi Francescana: «Sul punto – hanno scritto i giudici dell’Appello – giova richiamare quanto già esposto nella sentenza di primo grado circa la possibilità, per coloro che avessero inteso rovinare il frate estromettendolo dalla vita religiosa e dall’Oasi Francescana, di trovare soluzioni meno articolate e complesse dalla integrale invenzione di diversi episodi di violenza sessuale consumati dal frate all’interno della struttura indicata e ai danni di una religiosa».I giudici del secondo grado hanno insistito sull’attendibilità di suor T.. giustificando la sua originaria ritrosia a denunciare gli abusi. «Non appare contrastante – hanno per esempio scritto nella loro sentenza – con la complessiva credibilità della teste (il riferimento è alla religiosa vittima degli abusi, ndr) il fatto che, tra il 28 febbraio 2005 e il 25 giugno 2005 (ossia nell’arco temporale che copre le violenze commesse ai suoi danni dal Bisceglia), l’utenza a lei in uso abbia chiamato tredici volte quella in uso al frate». 

Era questo un particolare sul quale si era soffermata anche la difesa dei due imputati per dimostrare l’inattendibilità della presunta vittima. Secondo i giudici «a parte l’utilizzazione non esclusiva delle relative utenze telefoniche, si rileva come le chiamate siano certamente compatibili anche con il ruolo istituzionale ricoperto dalla suora all’interno dell’Oasi». Suor T., dunque, sempre per i giudici di Catanzaro, che hanno confermato in toto la sentenza di Cosenza, «non si è allontanata dalla struttura in seguito alla prima violenza subita ma vi è rimasta e ciò che ha fatto per assolvere al suo compito in relazione al quale, talvolta, avrà dovuto contattare proprio padre Fedele. Peraltro tali contatti (ammessi dalla stessa teste) ben si spiegano anche con la condizione psicologica di blocco e sostanziale incapacità reattiva i cui contatti (assolutamente limitati stante il numero esiguo di chiamate) ben si spiegano con mere finalità lavorative». 

E, quindi, non ci sarebbe «alcuna incompatibilità tra le telefonate e le violenze…».La Corte di Appello ha ritenuto pure «generiche le censure sollevate quanto alla credibilità di suor Gianna Giovannangeli, che per prima ha raccolto le confidenze della suora circa le violenze subite». A detta dei giudici la teste «ha fornito riscontri specifici su alcuni (limitati) elementi fattuali indicati dalla persona offesa (quale la telefonata di minaccia ricevuta il 18 settembre 2005) fornendo una spiegazione coincidente con quella resa» da suor T. «circa il fatto che la decisione di rilevare quanto accaduto è stata presa dalla vittima quando la stessa ha appreso che il De Pasquale era stato arrestato». E’, quest’ultimo, un pregiudicato di Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, paese originario della suora violentata. Secondo l’accusa Padre Fedele disse a suor T. di conoscerlo bene e che quindi si sarebbe rivolto a lui qualora lei avesse deciso di denunciare gli abusi subiti. La religiosa, intimorita. scelse il silenzio. Poi, avuta notizia dell’arresto di De Pasquale, parlò con suor Gianna Giovannangeli. Il resto è storia nota.

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