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Le ricerche dei corpi di Marcello Gigliotti e Francesco Lenti (Falconara, febbraio 1986)

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VOLEVA eliminare l’allora procuratore Oreste Nicastro e, come se non bastasse, progettava pure un attentato dinamitardo da eseguire nella Capitale. Avrebbe fatto anche questo, Marcello Gigliotti, se non fosse stato ucciso all’età di 25 anni insieme al suo amico fidato Francesco Lenti, all’epoca appena maggiorenne.

A rivelarlo è stato ieri in aula Gianfranco Ruà, vecchia guardia del crimine cosentino, da tempo ergastolano e oggi reo confesso per quel duplice omicidio datato febbraio 1986. Le sue dichiarazioni si aggiungono a quelle rese un mese fa dal coimputato Gianfranco Bruni, come lui membro della banda Pino-Sena negli anni ruggenti della guerra di mafia. In tal senso, la morte di Lenti e Gigliotti matura proprio come epurazione interna a quella consorteria e a ucciderli, ammettono ora i due ex affiliati, sarebbero stati proprio loro con l’ausilio del defunto Demetrio Amendola. Identica la modalità dell’esecuzione da loro prospettata: le vittime attirate in montagna con un pretesto e poi eliminate in rapida successione, a colpi di fucile e di accetta. È sul movente, però, che Ruà è stato molto più prodigo di dettagli.

L’antefatto è noto: l’insofferenza alle regole da parte di Lenti e Gigliotti che, pur facendo parte del clan Pino, si muovevano con troppa autonomia, pestando così i piedi anche ai loro amici. «Facevano colpi violentissimi. Invece di assaltare banche e gioiellerie, preferivano le rapine nelle case. Hanno puntato anche la pistola in testa a un bambino di un anno». Secondo motivo di contrarietà: gli omicidi, anche questi eseguiti arbitrariamente. In tale contesto rientra il loro presunto piano di eliminare il capo della Procura dell’epoca, come confidatogli in quei giorni dal padrino Antonio Sena.

E non solo. «Hanno ammazzato un ragazzo a piazza Kennedy, davanti a un sacco di persone» ha rievocato Ruà, facendo riferimento all’omicidio di Sergio Palmieri (25 novembre 1985), vicenda per la quale sarà poi condannato l’innocente Francesco Masala. Questo e altro ancora sostiene di averlo appreso dallo stesso Lenti, da lui interrogato prima di essere ucciso. Il ragazzo confessa le rapine – «Mi ha detto che a farle in quel modo ci prendevano più gusto – gli omicidi e poi conferma che è vero quel che si diceva su di lui e sul suo amico, e cioè che detenessero un’ingente quantità di esplosivo. Per farne cosa? Colpire un obiettivo non meglio precisato, secondo Ruà, ma si sarebbe trattato comunque di un’idea che frullava in testa a Gigliotti, noto all’epoca per le sue simpatie neofasciste. «Faceva parte dei Nar» ha aggiunto sul filo delle suggestioni. E non è stata l’unica.

Fin qui, infatti, l’inchiesta ha accertato che a fornire il fucile ai sicari sia stato Roberto Pagano, lo storico collaboratore di giustizia che, oltre a confermare la circostanza, ha incassato dieci anni di condanna per la sua partecipazione al delitto.

Niente di tutto ciò per Ruà. «Non avevo certo bisogno di rivolgermi a lui per trovare un fucile» ha sibilato ieri in aula, spiegando come all’epoca avesse l’imbarazzo della scelta in tema di armi – «Ne tenevo una nascosta in ogni portone della città» – con accenni anche di sociologia criminale in bilico sull’abisso dei ricordi: «Ci mancava la cultura, non avevamo soldi, ma le armi, quelle non ci mancavano».

La sua confessione, così come quella di Bruni, potrebbe influire non solo sulle rispettive posizioni processuali. La nuova narrazione sul caso Lenti-Gigliotti, appresa dalla viva voce di due degli oscuri protagonisti, finisce infatti per scagionare l’altro imputato eccellente, ovvero Francesco Patitucci, l’uomo che è attualmente considerato come il boss del gruppo criminale nato proprio dalle ceneri del gruppo Pino-Sena.

In tal senso, il racconto dei suoi vecchi compagni d’arme stravolge la versione sposata dagli inquirenti su input di diversi collaboratori di giustizia, e cioè che Lenti e Gigliotti, nel loro ultimo giorno di vita, siano stati attirati proprio a casa sua, nella campagna rendese, con il pretesto di una frittoliata; che il primo a cadere sia stato Lenti, fulminato a colpi di fucile e poi decapitato al fine di terrorizzare l’amico, sottoposto a interrogatorio e infine ucciso anche lui. Solo in una fase successiva, dunque, i loro corpi sarebbero stati scaricati nei boschi di Falconara Albanese, sepolti sotto una fitta coltre di neve. Resta da vedere adesso a quale versione dei fatti daranno credito i giudici.

Due storie, entrambe a tinte forti, con la verità alternativa proposta da Ruà e Bruni che, per certi versi, è ancora più granguignolesca. La testa di Lenti, infatti, sarebbe stata mozzata quando il giovane era ancora in vita, con Amendola nei panni del boia. Un particolare horror che fa da preludio all’ingresso in scena di Franco Pino, l’ultimo degli imputati.

Com’è noto, l’ex boss ha sempre preso le distanze da quel duplice omicidio, parlando di una decisione irrevocabile presa da Sena e alla quale egli non poté opporsi. La confessione di Bruni sembrava confortarlo – «Fate come volete, non voglio saperne nulla» gli avrebbe detto Pino interpellato in merito – quella di Ruà decisamente no. «Prendevo ordini solo da lui» ha affermato quest’ultimo, indicando il suo ex leader come mandante di quel crimine. «Ci eravamo portati dietro l’ascia perché proprio Pino ci disse che dopo aver ucciso Gigliotti, avremmo dovuto anche sfregiarlo». Prossima udienza il 19 gennaio.

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