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Denis Bergamini

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COSENZA – La chiusura delle indagini sul caso Bergamini dopo sei anni di gestazione ci consegna quella che, secondo la Procura di Castrovillari, è la versione definitiva dei fatti verificatisi il 18 novembre del 1989 a Roseto Capo Spulico (Cs). La sintesi, come di consueto, è affidata al capo d’imputazione formulato per Isabella Internò, l’ex fidanzata del calciatore, all’epoca diciannovenne e oggi unica indagata con l’accusa di omicidio volontario. Quel giorno, dunque, proprio lei dopo aver «ottenuto un appuntamento» con Bergamini lo avrebbe «narcotizzato in concorso con ignoti» per ridurne le capacità di difesa e cagionarne poi la morte, «asfissiandolo meccanicamente mediante uno strumento soft». Dopodiché, con Denis già morto o comunque «in limine vitae», con l’aiuto dei suoi complici avrebbe disteso il corpo sull’asfalto per farlo investire da un automezzo a coronamento della messinscena. La ragazza avrebbe raggiunto tale determinazione perché non si rassegnava alla decisione assunta da Bergamini di troncare la loro relazione sentimentale.

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Non è una ricostruzione inedita, dal momento che è identica a quella che si era fatta largo durante la prima inchiesta, salvo poi essere bocciata dagli stessi inquirenti all’epoca guidati dal procuratore Franco Giacomantonio. I suoi successori hanno deciso di riproporla negli stessi termini e, a questo punto, probabilmente con gli stessi limiti di allora.

L’APPUNTAMENTO

La prima indagine ha già dimostrato che è avvenuto esattamente il contrario. Quel giorno è Denis che contatta la ragazza dal cinema “Garden” dove si è recato insieme a tutti i suoi compagni di squadra. Un testimone lo vede dirigersi per ben due volte alla cabina ubicata di fianco alla cassa e, in effetti, come spiegato dalla Internò nell’immediatezza, la prima chiamata era andata a vuoto dato che lei in quel momento non si trovava in casa.

Per anni poi si è favoleggiato su sedicenti “ombre” che avrebbero atteso e poi prelevato Bergamini fuori dal cinema, ma altrettanti testimoni interpellati tra il 2010 e il 2014, smentiscono anche questa circostanza: il calciatore uscì da solo, sfruttando peraltro l’assenza del suo allenatore Gigi Simoni; diversamente per lui sarebbe stato impossibile lasciare quella sala.

IL NARCOTICO

Dall’autopsia eseguita un mese dopo la morte e da quella replicata nel 2017 non sono emerse tracce di droghe o sonniferi, solo alcol in quantità definita «trascurabile» dal medico legale. Al riguardo, dunque, non c’è neanche un elemento concreto, ma dato che è impossibile immaginare un Bergamini che si fa adagiare sull’asfalto senza abbozzare una reazione, va da sé che debba essere stato stordito in qualche modo. Come? Non v’è traccia neanche di ferite da colpi contundenti, ragion per cui non resta che ipotizzare l’utilizzo di un narcotico.

L’ASFISSIA

Era una soluzione proposta già dai consulenti di Giacomantonio attraverso una tecnica di medicina sperimentale applicata all’osservazione dei vetrini della prima autopsia. Il procuratore dell’epoca, però, ha un’intuizione lungimirante: far lavorare i suoi specialisti separatamente e non in modo collegiale. Lo fa a garanzia degli indagati e, non a caso, quelle perizie risulteranno così contraddittorie da annullarsi a vicenda.

Proprio in quel contesto emerge la teoria del soffocamento soft, anche in questo caso per esclusione: è impensabile che lo abbiano strangolato con le mani o con una corda, data l’assenza di lesioni che in caso contrario sarebbero state evidenti; si propende, quindi, per l’utilizzo di un sacchetto di plastica o di un cuscino che qualche segno, però, lo avrebbero pure lasciato. Per aggirare anche quest’ultimo ostacolo, si arriva a immaginare lo strangolamento leggero, delicato. Soft per l’appunto.

LA MORTE

Altro tema sul quale si sono espressi fior di periti senza però arrivare a nulla di concreto. Che Bergamini fosse morto prima di essere investito dal camion, si è provato a dimostrarlo scomodando ancora la medicina sperimentale, prima attraverso l’analisi del sangue e della sua colorazione e buon ultimo con la glicoforina.

Tutti gli specialisti interpellati sulle cause del decesso, però, sono approdati alla stessa conclusione: a ucciderlo è stata la ruota del camion di Pisano. Una contraddizione in termini, dunque, alla quale si è tentato di opporre l’ennesima congettura riparatoria, e cioè che al passaggio dell’automezzo lo sfortunato atleta non fosse morto, bensì in fin di vita.

E L’AMORE

E così si procede per contrarietà e sul filo delle deduzioni. Il movente prospettato non fa eccezione alla regola e anzi, a quello si arriva addirittura per sfinimento. Una volta scartate piste rivelatesi inconcludenti come la droga, il totonero e la ‘ndrangheta, si opta per quella passionale alla quale, a partire dal 2010, finiscono per aggrapparsi un po’ tutti.

Sia i familiari di Bergamini che molti compagni di squadra propongono compatti un’immagine di Isabella appiccicosa «come l’attack», che stava addosso a Denis in modo asfissiante e non voleva saperne di rassegnarsi alla fine del loro rapporto, a differenza del suo ex che, dopo averla lasciata, aveva già in mente di sposare un’altra donna. Sembrerebbe un riscontro, ma il problema è che le stesse persone, nell’immediatezza dei fatti, rappresentavano una realtà diametralmente opposta. Nel 1989, infatti, colleghi e affini sono concordi nell’affermare che il calciatore fosse ancora molto preso da Isabella. Era stato lui a lasciarla, ma solo a causa di una gelosia retroattiva che lo tormentava. Soffriva ancora per quella ragazza, come dimostrato anche dalla foto di lei che teneva di fianco al letto durante il ritiro estivo. Solo quattro mesi prima di dire addio al mondo.

I COMPLICI

Cosa è cambiato allora rispetto al 2014? Qual è il valore aggiunto in termini di conoscenze che la nuova inchiesta ha apportato al caso? Lo scopriremo una volta visionati gli atti d’indagine, anche se dall’analisi sommaria del capo d’imputazione il tempo sembra essersi fermato proprio a sette anni fa. Nessun progresso – e anche di questo c’è da esserne certi – si è registrato sul fronte dell’identità dei presunti complici, le persone che avrebbero fatto parte della cospirazione insieme a Isabella. La soluzione offerta dalla Procura, infatti, è quella che fa da cornice a ogni mistero che si rispetti: gli ignoti, i soliti ignoti.

LE RISPOSTE

Un quadro d’accusa che sembra seguire, quindi, un percorso diverso rispetto a quello delle indagini tradizionali, con i fatti che non sono messi insieme per verificare se Bergamini sia stato realmente ucciso oppure no, ma solo per cercare una spiegazione – possibilmente logica – all’omicidio inteso come assunto da dimostrare. A rendere il tutto ancora più complicato e scivoloso ci sono poi quegli elementi, ben più concreti, che offrono invece una chiave di lettura diversa della tragedia di Roseto e che all’epoca hanno spinto il gip Annamaria Grimaldi ad affermare con tono di certezza che quello del 18 novembre 1989, al km 401 della Strada statale 107 jonica «non fu un omicidio».

Questa, però, è un’altra storia e ormai non è più tempo di domande, bensì di spiegazioni. Donata Bergamini ne attende una da trentadue anni. Le hanno detto che la glicoforina dimostra in modo evidente che suo fratello è stato ucciso. È davvero così? In caso contrario, qualcuno dovrà assumersene la responsabilità. Anche Isabella Internò merita più d’una risposta. Da 11 anni è indagata per omicidio, un record poco invidiabile che da allora l’ha esposta a un linciaggio da social network senza precedenti, con insulti e maledizioni che le si riversano addosso dai pulpiti virtuali ogni qual volta l’argomento in questione torna d’attualità. La sua vita e quella dei suoi familiari è stata rovinata, forse in modo irrimediabile, così come la reputazione di magistrati, carabinieri, semplici testimoni associati di volta in volta a suggestioni complottiste ieri più dilatate ma ora ridotte all’osso. Tutti attendono una spiegazione.

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