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Donato Bergamini

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COSENZA – Quasi cento persone intercettate al telefono per due anni, decine di captazioni ambientali e quattro trojan inoculati nei cellulari. E ancora sommarie informazioni a pioggia, relazioni di polizia giudiziaria, testimonianze di pentiti tra cui un quella di un ex camorrista e altri atti giudiziari per un totale di centinaia di migliaia di documenti.

Sono i numeri della nuova inchiesta, verosimilmente l’ultima, sulla morte di Donato Bergamini, il calciatore di 27 anni investito da un camion sulla Ss 106 nei pressi di Roseto Capo Spulico, il 18 novembre del 1989.

Com’è noto, proprio oggi Isabella Internò, 52 anni, comparirà davanti al gup del Tribunale di Castrovillari perché sospettata dell’omicidio di quello che all’epoca dei fatti, con lei appena diciannovenne, era il suo fidanzato.

Un’ipotesi, quella del delitto, già bocciata da una precedente indagine che, avviata nel 2011 dall’allora procuratore Franco Giacomantonio, consegnerà alla cronaca una verità giudiziaria in bilico tra l’incidente e il suicidio, escludendo però la possibilità di un omicidio sulla scorta della «logica» e di numerose «evidenze», parole queste utilizzate dal gip Annamaria Grimaldi per motivare l’archiviazione dell’inchiesta.

«Manca la notizia criminis» sentenzia il giudice alla fine del 2014 come a dire: non è stato un omicidio, ma ribaltare tale conclusione diventa, tre anni dopo, l’obiettivo del successore di Giacomantonio, Eugenio Facciolla, che dopo aver chiesto e ottenuto la riapertura del caso, previa riesumazione della salma, si affida alla medicina legale per far luce sulla vicenda.

E così, gli specialisti interpellati per l’occasione stabiliscono che quel giorno, il centrocampista biondo del Cosenza calcio fu prima soffocato con uno strumento dolce – un cuscino, forse un sacchetto di plastica – e poi adagiato sull’asfalto per esporlo al passaggio di un automezzo qualunque, simulando un investimento al fine di coprire la vera causa della sua morte. Anche gli esperti di Giacomantonio avevano paventato un finale analogo, ma ne parlavano in termini di possibilità evidenziando anche tutti i limiti delle teorie da loro suggerite. Quelli del gip Teresa Reggio, invece, dopo un tentennamento iniziale appongono alle medesime conclusioni il sigillo della certezza scientifica.

È il punto di partenza del Bergamini ter. Dal 2017 in poi, si ricomincia a indagare proprio sul presupposto che quello di Roseto sia stato senza alcun dubbio un omicidio e il risultato, due anni più tardi, sarà la mole di documenti di cui abbiamo parlato in apertura.

Il grosso è rappresentato dalle intercettazioni. A finire sotto controllo sono in prevalenza i familiari della Internò, quasi tutti i compagni di Bergamini – quelli che hanno giocato con lui nel Cosenza, dal 1985 fino alla data della sua morte – e molti dirigenti della vecchia società calcistica. Da quei dialoghi emergono sospetti su partite combinate, anche con ammissioni di alcuni dei protagonisti, ma nulla di significativo sui fatti avvenuti trent’anni prima a Roseto Capo Spulico se non spunti – fra cui testimonianze inedite – che sembrano confermare il racconto dell’indagata e dare smalto alla tesi della sua innocenza.

Di tutto ciò la Procura non ne ha fatto un dramma e, anzi, ha interpretato l’assenza di indizi come la dimostrazione del fatto che nessuno è a conoscenza di questo omicidio perché lo stesso è stato ideato ed eseguito da un gruppo ristretto di persone legate da vincoli di sangue.

Che poi non ne sappiano niente persino diversi collaboratori di giustizia, compreso il superboss Franco Pino, secondo Facciolla e i suoi detective – l’ispettore di polizia Ornella Quintieri e l’assistente Pasquale Pugliese – va solo a confermare questo assunto: tutto è maturato all’interno dell’alveo chiuso e impenetrabile della famiglia Internò. A conti fatti, dunque, il ragionamento proposto dagli investigatori è che in assenza di altri possibili colpevoli, a uccidere Bergamini non può essere stata che Isabella, la ragazza che si trovava con lui al momento della tragedia, quella che fin dal primo istante ha ripetuto – «mentendo» – che il suo ex fidanzato voleva fuggire dall’Italia, abbandonare il calcio e imbarcarsi da Taranto verso una destinazione esotica, ma che a un certo punto dopo essersi fermato su una piazzola sterrata ha scelto di porre fine alla propria esistenza lanciandosi sotto alle ruote di un camion in transito.

Si è ragionato per esclusione, dunque, anche con riferimento al movente dell’omicidio: piste come quella della droga o del calcio scommesse sono state riprese da capo, scandagliate a fondo e poi scartate in favore dell’unica teoricamente possibile, quella del delitto d’onore. Insomma, gli inquirenti hanno proceduto a ritroso, una tecnica investigativa inusuale ma da loro stessi rivendicata senza farne mistero. Non a caso, l’ultimo capitolo dell’informativa si apre con una citazione letteraria che rimanda proprio a questo stile investigativo. Sono parole che Arthur Conan Doyle mette in bocca al suo Sherlock Holmes: «Dopo aver escluso l’impossibile ciò che resta, per improbabile che sia, deve essere la verità» e poche righe più in giù Quintieri e Pugliese, con la supervisione di Facciolla, spiegano come questa massima possa «trovare ambito di applicazione nel caso dell’omicidio di Donato Bergamini».

In estrema sintesi: lo ha ucciso Isabella, lo dice la scienza. Anche se appare improbabile. Anche se quello che avrà inizio oggi a Castrovillari non è un romanzo.

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