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Il compianto Denis Bergamini

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COSENZA – La gelosia di Donato Bergamini nei confronti di Isabella Internò. Un dato acquisito in modo quasi pacifico trentadue anni fa, ma che sparisce dai radar a partire dal 2011, quando si riaprono le indagini sulla morte del calciatore del Cosenza datata 18 novembre 1989.

Di questo e altro si è parlato ieri in Corte d’assise durante il processo che vede proprio la donna, oggi 52enne, sotto accusa per l’omicidio del suo fidanzato dell’epoca, ingranaggio di una cospirazione che all’epoca avrebbe determinato l’uccisione di Bergamini – soffocato con un cuscino, si ritiene – e poi l’esposizione del suo corpo al passaggio di un camion transito con l’obiettivo di simularne il suicidio.

A queste conclusioni, almeno, è giunta la Procura di Castrovillari attraverso indagini eseguite da due poliziotti della locale sezione di pg, Ornella Quintieri e Pasquale Pugliese, tornati ieri in tribunale per affrontare il controesame. Un momento importante giacché per la prima volta, dopo dieci anni di silenzio, la difesa della Internò ha potuto prendere la parola per cominciare a far valere le proprie ragioni.

Gelosia dicevamo, che unita al risentimento per la fine del loro rapporto avrebbe divorato l’allora ex fidanzata diciannovenne del calciatore; una gelosia «ossessiva», come l’hanno definita tanti compagni di squadra di Bergamini, che l’avrebbe determinata a trasformarsi in assassina. Che però il calciatore nato in provincia di Ferrara nutrisse un sentimento analogo nei confronti di quella studentessa cosentina di ragioneria, biondina e con i capelli a caschetto, è un dettaglio passato quasi in sordina.

Eppure, subito dopo la sua morte le testimonianze al riguardo erano pressoché univoche. Gli avvocati Rossana Cribari e Angelo Pugliese le hanno snocciolate tutte: da Claudio Lombardo a Michele Padovano, passando per Graziano Nocera e per l’allenatore Gigi Simoni, persino con l’aggiunta di Domizio Bergamini, il papà di Denis. Nei giorni successivi alla tragedia di Roseto Capo Spulico, infatti, tutti loro concordavano sul fatto che, malgrado si fossero lasciati da qualche mese, Donato fosse ancora molto preso da Isabella. Era stato lui a troncare il fidanzamento perché «non tollerava la relazione avuta dalla ragazza con un altro calciatore prima del suo arrivo a Cosenza».

Gelosia retrospettiva, insomma, che non era svanita neanche quando il diretto interessato, interpellato da Bergamini stesso, aveva di fatto ridimensionato le sue preoccupazioni. Denis parlava di questa storia un mese prima di morire e «diventava rosso, come paonazzo» (Padovano) e a luglio dello stesso anno, quattro mesi prima del suo presunto omicidio, aveva sul proprio comodino «una foto di Isabella». (Giuseppe Maltese).

 Eppure voleva sposare un’altra – Roberta Alleati, una ragazza delle sue parti – e intratteneva rapporti con altre donne. Un tema solo sfiorato da Pugliese e Cribari, ma che dimostra quanto pesino in questa vicenda le testimonianze, tempestive e non, e come l’accertamento della loro genuinità sia uno dei principali compiti della Corte presieduta dal giudice Paola Lucente. Non a caso, le indagini hanno messo insieme una mole enorme di dati di contesto, ma indizi specifici a carico dell’imputata non sono emersi dalla narrazione dei due investigatori protrattasi per quattro lunghe udienze. Gran parte, se non tutta l’ipotesi d’accusa si fonda sulla nuova perizia che nel 2017 ha riproposto il tema di un Bergamini morto per asfissia meccanica, ammantando tali conclusioni di «certezze tecniche», ma di questo si parlerà più avanti quando in aula sfileranno i tanti medici legali che in trent’anni hanno detto la loro su questa vicenda. Il processo è appena cominciato e si annuncia lunghissimo.

Per il momento, la difesa ha puntato a far emergere altre contraddizioni della versione d’accusa, facendo accenno alle altre sentenze – l’assoluzione di Pisano, l’archiviazione del 2014 – che hanno assegnato al caso una verità in bilico tra l’incidente e il suicidio, con un focus particolare sulle dichiarazioni del supertestimone d’accusa Francesco Forte – definito dai suoi stessi parenti «un pallonaro» – e poi sulla scelta di Bergamini che, nell’estate del 1989, strappa il contratto appena sottoscritto con il Parma e decide di restare in Calabria.

«È rimasto giù per lei» convengono il suo ex compagno di squadra Luigi Simoni e il suo procuratore Bruno Carpeggiani, laddove per lei si intende Isabella, ma è una spiegazione alla quale non aderisce il pubblico ministero Luca Primicerio e neanche la parte civile rappresentata dall’avvocato Fabio Anselmo. Anche quest’ultimo ha esaminato i due testi – per Primicerio si è trattato invece di un riesame – e la circostanza più significativa emersa dalle sue domande riguarda un piccolo ematoma che alcuni testimoni sostengono di aver visto sulla tempia di Bergamini subito dopo la sua morte: rotondo, grande quanto una monetina.

Non vi è traccia di questa ferita nelle foto scattate dopo la prima riesumazione, cinquanta giorni dopo l’accaduto, ma l’ispettore Quintieri ci ha costruito su un ragionamento esposto ieri in aula: «Riteniamo possa essere il segno di una pistola che qualcuno gli aveva puntato in testa per minacciarlo». Prossima udienza il 10 gennaio e poi il 13 e 14 dello stesso mese. Si procederà a un ritmo di quattro testimoni per volta fino a esaurimento. In totale sono più di duecento.

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