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Il Comune di Cosenza

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COSENZA – Vanti un credito nei confronti del tuo comune ma rischi di non vedere mai i tuoi soldi perché l’ente è finito in dissesto. Nella migliore delle ipotesi potrebbero volerci quindici, forse vent’anni. Che fare? Una risposta, per certi versi rivoluzionaria, l’ha data nei giorni scorsi la Corte europea per i diritti dell’uomo con una sentenza che entra a gamba tesa nel nostro ordinamento giuridico, rischiando di scompaginarlo. Niente più tempi biblici per la liquidazione, se l’amministrazione locale è paralizzata dai guai finanziari, il debito lo paga lo Stato.

A stabilirlo sono stati, nei giorni scorsi, i giudici di Strasburgo che hanno accolto il ricorso presentato da un’anziana di Cosenza che nel 2017 resta vittima di una caduta su un marciapiede accidentato della città, in viale della Repubblica, riportando diversi traumi e ferite.

La donna cita in giudizio l’Ente, ottenendo poi dal Tribunale civile diciottomila euro di risarcimento danni, una sentenza passata in giudicato nel 2019 ma rimasta lettera morta perché alla fine dello stesso anno, il Comune cosentino presenta ufficialmente la dichiarazione di dissesto finanziario.

A quel punto la poveretta finisce nel frullatore della burocrazia: le tocca insinuarsi nel passivo dell’ente municipale, mettersi in coda insieme a tutti gli altri creditori e attendere una chiamata da parte dei commissari liquidatori che, in virtù dell’età già avanzata della signora, arriverà solo con l’ausilio di un medium.

Fine della storia, anzi no. Perché il coniglio dal cilindro, è il caso di dirlo, l’ha tirato fuori l’avvocato Giulio Bruno del foro cosentino al quale la donna si è rivolta per seguire la vicenda. Il legale ha scelto di rivolgersi alla Corte europea e, nel giro di un anno, il suo ricorso è stato prima dichiarato ammissibile e poi validato con un provvedimento lampo.

I giudici, infatti, hanno «invitato» lo Stato italiano «a procedere alla definizione della controversia entro il mese di settembre» pagando la somma richiesta dalla ricorrente, più i danni morali che, in questo caso, sono quantificati in quattromila euro.

I principi alla base di questa decisione sono semplici ma affilati: uno Stato non può bloccare la sentenza di un suo Tribunale, e soprattutto non può violare gli interessi e i diritti dei propri cittadini. A supporto di questa tesi, Bruno ha citato diversi articoli della Convenzione europea che sarebbero stati violati in caso di sentenza sfavorevole alla sua assistita, ma è un’eventualità che la Cedu non ha neanche preso in considerazione. Non a caso, la soluzione adottata è ritenuta dai giudicati pacifica, quasi scontata in virtù dei precedenti giurisprudenziali.

Nel provvedimento ne sono citati cinque, segno di una procedura ancora poco conosciuta, ma che qualora dovesse dilagare, potrebbe dar luogo a conseguenze imprevedibili. Nel caso di specie, infatti, la cifra in ballo era davvero risibile, ma cosa accadrà quando a bussare a denari a Strasburgo saranno cittadini in credito per centinaia di migliaia di euro, se non addirittura milioni?

Il problema è di prospettiva, e da questo punto di vista, l’Italia sembra messa con le spalle al muro. Rispetto alla sentenza favorevole all’anziana cosentina, l’avvocatura dello Stato non può opporsi in alcun modo, l’unica chance è quella di sollevare osservazioni che sembrano, però, destinate a lasciare il tempo che trovano. Non resta che conciliare, insomma, e non è escluso che tra le reazioni a catena che questa storia potrebbe innescare in futuro, vi sia anche una messa in discussione di questo strumento finanziario – il dissesto – allo stato attivabile grazie all’articolo 244 del Testo unico degli enti locali.

C’è un’altra ragione, infatti, per cui la Corte europea per i diritti dell’uomo ha ritenuto gli interessi di una singola cittadina prevalenti rispetto a quelli di uno Stato e del suo ordinamento giuridico, e cioè che la procedura di dissesto finanziario è pressoché sconosciuta in quasi tutto il continente. Qualcosa di analogo si ritrova in Austria; la Romania lo aveva introdotto, salvo poi fare marcia indietro; l’Ungheria vi ricorre in casi eccezionali e seguendo parametri rigidissimi, ma ben venticinque stati membri del Consiglio europeo non sanno nemmeno cosa sia. Il dissesto, dunque, è una tipicità tutta italiana. E come tale, forse, destinata a scomparire.

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