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Al processo sulla morte di Denis Bergamini, il medico legale Francesco Maria Avato ricorda la prima autopsia sul corpo del calciatore nel 1990. «Il mio fu un lavoro “al buio”»

UN lavoro “al buio”. Il professor Francesco Maria Avato, colui che eseguì la prima autopsia sul corpo di Denis Bergamini nel gennaio 1990, dal banco dei testimoni in Corte d’Assise dove è comparso nel corso del processo per la morte dell’ex calciatore rossoblù, non ricevette alcuna informazione in merito al caso di cui avrebbe dovuto occuparsi. Né l’annotazione di servizio redatta dal brigadiere Barbuscio, né il verbale di polizia stradale o altre coordinate utili. Nemmeno sull’ipotesi di reato per la quale si procedeva.

Non ci fu alcun contatto con i magistrati: ieri è stato, infatti, sentito per la prima volta. Non furono eseguiti esami radiologici né prelievi istologici. L’esame effettuato a Boccaleone, paese d’origine di Bergamini, si basò quindi sui pochi elementi allora a disposizione. Rispondendo alle domande dell’avvocato Angelo Pugliese, Avato ha spiegato che «il corpo era in ottimo stato di conservazione. Presentava macchie ipostatiche molto scarse e non c’erano petecchie, né lesioni alle labbra, sul collo o nella faringe; la “breccia” ossia le lesioni erano tutte a livello addominale».

Il decesso, secondo Avato, fu rapido. Poche decine di secondi dopo la rottura della vena iliaca; il cuore era “vuoto”, ovvero senza sangue, i polmoni dilatati al punto da avvicinarsi tra loro. In merito alle cause che hanno determinato la morte di Bergamini, il professore nella sua relazione parla di “pre-asfissia”. Cioè una fase di dispnea respiratoria, quasi come fosse stato sorpreso dal trauma dovuto al sormontamento del camion. In quel momento, secondo il perito, Denis Bergamini era già adagiato sull’asfalto, e gli parve come se il corpo fosse nudo, senza vestiti. L’enfisema acuto nonché l’edema a livello polmonare sarebbero aspetti concorrenti del decesso causato, a suo dire, dallo shock emorragico dovuto al sormontamento del mezzo pesante.

Una tesi difforme da quella sostenuta nel 2017 dai consulenti Roberto Testi, Vittorio Fineschi e Margherita Neri nella perizia svolta a seguito della riesumazione del cadavere. A tal proposito, il pubblico ministero Luca Primicerio ha proposto un confronto tra gli esperti, tutti presenti all’udienza. Richiesta a cui si è associata la parte civile con gli avvocati Fabio Anselmo e Alessandra Pisa e accordata dalla Corte presieduta da Paola Lucente.

Per il professor Toschi, «la “pre-asfissia” non esiste». La morte del calciatore sarebbe dovuta a un’asfissia meccanica, avvenuta presumibilmente mediante un mezzo “soft” – ipotesi che comunque Avato non esclude, ma che non gli fu possibile dimostrare con gli strumenti dell’epoca -, e non per “compressione” come nel caso di terremoti o della partita Juventus-Liverpool, poiché in quel caso il corpo avrebbe dovuto presentare caratteristiche diverse. A tale conclusione si è giunti in occasione della riesumazione del cadavere grazie all’impiego della glicoforina, di cui il professor Toschi ha sottolineato il valore di assoluta attendibilità scientifica nella valutazione della vitalità di una lesione in quanto non esistono “falsi positivi”; sul punto, Avato ha invece sollevato dubbi ritenendo che i risultati ottenuti con questa tecnica possano essere falsati.

La prossima udienza è in programma il 25 gennaio con l’escussione dei testi D’Ippolito e Iuliano.

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