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Valerio Giacoia sistema una copia del Quotidiano e della Gazzetta dello Sport sul feretro del padre

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COSENZA – La piazza si riempie pian piano di familiari, amici, colleghi. Il cielo è una coltre spessa di nubi, una cappa densa di grigio  da cui solo di rado fa capolino qualche sparuto raggio di sole. I portoni della chiesa di Santa Teresa si sono spalancati ieri pomeriggio per dare l’ultimo saluto ad Emanuele Giacoia. Il maestro, il cronista sportivo, il giornalista indimenticato e indimenticabile, protagonista assoluto di un’intera stagione della televisione calabrese e non solo. Gentile, elegante, discreto. «Raffinato», per dirla con le parole di tutti quelli che lo hanno conosciuto, «come solo un vero galantuomo sa essere».

Man mano i presenti prendono posto nelle ampie navate; i figli e i nipoti nelle prime file, i giornalisti della Rai, gli editori del Quotidiano del Sud, gli uomini della Polizia poco più dietro.

A ricordarlo per primo è Pasqualino Pandullo, caporedattore del Tgr Calabria. «Parlare di lui mi riempie d’orgoglio – esordisce Pandullo – perché vuol dire parlare della storia della Rai. Lucano di nascita e calabrese d’adozione, riuscì a raccontare questa regione in lungo e in largo. Fu il mio primo indimenticabile caporedattore, lui ad accogliermi quando muovevo i miei primi passi». La voce ferma, la mente che corre ai mille ricordi condivisi insieme, ai tanti aneddoti che fanno di Giacoia  «un maestro umano e affabile, sempre signorile». Come quello, curioso, di una signora che gli regalò un uovo per ringraziarlo per un servizio fatto: «Me lo raccontò piangendo, era rimasto colpito da quel gesto» spiega Pandullo. «Oggi ci consegna un’impareggiabile eredità di affetti e professionalità. Lo vedremo sempre con gli occhi del cuore», è l’addio commosso del caporedattore.

Sul feretro adorno di fiori si scorgono una copia della Gazzetta dello sport e del Quotidiano. L’uno, che Giacoia considerava «la Bibbia dello sport»; l’altro di cui era stato direttore per anni dopo la pensione. Sono il tributo naturale a chi del giornalismo aveva fatto una missione prima ancora che un lavoro, l’ultimo omaggio al padre dal figlio Valerio. Il suo discorso alla platea gremita di Santa Teresa richiama la figura del professionista, ma restituisce innanzitutto l’immagine del padre, dell’uomo, di quel «gigante di umiltà ed eleganza» che era Emanuele Giacoia. «Lo vedevamo come i Pirenei, era sempre lì per proteggerci dai nemici. Era un uomo di successo, un grande, eppure era umilissimo: stava con gli ultimi, passava il tempo con gli operai e i tecnici, pranzava con i contadini», racconta Valerio con la voce spezzata dal pianto. Giacoia, non solo «padre», ma anche «madre», perché «dolcissimo, mai burbero, sempre accogliente». Giacoia, «poliglotta dell’anima», che riusciva «a farsi capire sempre da tutti». «Quella che ci ha lasciato oggi  – chiosa infine il figlio tra gli applausi scroscianti dei presenti – è un’incredibile lezione di umiltà; è questo il suo più grande insegnamento».

Nell’omelia don Enzo Gabrieli si rivolge ai familiari, «testimoni di una vita straordinaria», ai colleghi in sala, a tutti coloro che lo conoscevano bene e a chi, pur non avendolo mai incontrato, serba oggi indelebile il ricordo di un pilastro dell’informazione e del giornalismo. «Dobbiamo imitare e onorare l’esempio di un grande uomo, custodire per sempre il suo lascito eccezionale» – è il monito accorato del presbitero. Che  conclude, rivolto ai figli: «E’ un momento difficile, ma sappiate che la morte non avrà la meglio su quella che è stata la vicenda professionale e umana di Emanuele Giacoia. La sua eredità continuerà a vivere dopo di lui;  ciascuno di noi lo ricorderà sempre per tutto il bene che ha fatto a questa terra».

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