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La foto scattata subito dopo il sequestro Moro nella quale gli investigatori riconobbero (nei cerchi) il boss della ‘ndrangheta Antonio Nirta (a destra) e Giustino De Vuono (a sinistra)

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Riesce ancora a far parlare di sé Giustino De Vuono, “lo scotennato”, l’ex legionario di Scigliano in provincia di Cosenza, indicato addirittura come uno degli assassini di Aldo Moro. Eppure dovrebbe essere morto il lontano 13 novembre del 1994 nel carcere di Caserta, ma più di una persona mette in dubbio questa circostanza, anche se risulta sepolto nel cimitero della cittadina del Savuto, dov’è nato l’8 maggio del 1940.

La tomba di Giustino De Vuono

Non più di cinque mesi fa, infatti, alcuni carabinieri, se tali erano, provenienti da fuori regione, sarebbero stati visti attorno alla lapide di De Vuono e sono ancora tanti i giornalisti di tutta Italia, alla perenne ricerca di informazioni sul suo conto. Ciò significa che su Agostino si continua a lavorare e ad indagare ma nessuno sa se è realmente vivo o morto, chi lo sta cercando, quali segreti sul suo conto vanno ancora svelati e quali, invece, conviene custodire gelosamente.

Giustino De Vuono, figlio di un barbiere molto severo e dai modi molto autoritari, si arruolò nella legione straniera che era ancora un ragazzo.
“Suo padre lo picchiava sempre – ricordano ancora a Scigliano – e lui si rifugiava sui tetti delle case di Diano, la frazione dove abitava, per sfuggire alle percosse del genitore”.

Giustino aveva anche due sorelle e lui, fin da piccolo, si fece sempre notare per le bravate che era capace di compiere. Sparì da Scigliano all’improvviso per ricomparire quattro anni dopo. Era cambiato, duro e spavaldo, e si divertiva molto a sbalordire i suoi compaesani con prove di forza che lasciavano tutti senza fiato.

“Nella piazza del paese – ricordano – lanciava il rasoio da barba in aria e lo afferrava con i denti. Poi, invitava qualcuno tra i presenti a provare a farlo se ne era capace. Nel bar, invece, un giorno sfidò un ragazzo che si dava le arie da bullo. Lo fece sedere al tavolino e gli chiese di poggiarvi il braccio. Anche lui fece la stessa cosa. La prova a cui voleva sottoporre sé stesso e il malcapitato consisteva nel vedere chi avrebbe sopportato meglio il dolore che provocava una sigaretta accesa sulla carne viva. Mentre il suo avversario dopo pochi secondi tirava via il braccio, lui, con il sorriso sulle labbra, lasciava che la cicca si spegnesse da sola dopo avergli provocato una profonda ustione. Giustino era così. Aveva anche una mira eccezionale. Erano tanti in paese, cacciatori o professori amanti delle armi, che si univano a lui per il piacere di vederlo sparare. Un giorno, in campagna, con una carabina di precisione riuscì a colpire un cerino a venticinque metri. Era impossibile batterlo”.

A Scigliano ricordano ancora il giorno in cui vennero a cercarlo degli uomini in elicottero che non parlavano in italiano, ma un’altra lingua, così raccontano gli anziani del paese.

Per un periodo fece anche il barbiere al posto del padre e a qualche ragazzino a cui tagliava i capelli, dopo aver finito, gli faceva con il rasoio “na ntacca”, un piccolo taglio, vicino a una basetta. Lasciava la firma Giustino, qualunque attività svolgesse.

Le madri di Scigliano raccomandavano ai propri figli di stargli alla larga, di non frequentarlo, ma molti ragazzi erano affascinati dalla sua figura e, quasi adoranti, lo seguivano ovunque andasse. E lui, consapevole del potere che esercitava su di loro, si esibiva nelle sue prodezze e accontentava ogni possibile richiesta.

Qualcuno se lo portava a cavallo nella sua proprietà e ad altri consentiva di seguirlo in campagna mentre si esercitava nel tiro a bersaglio. Le ragazze, invece, seppur lo evitassero accuratamente, al suo passaggio sospiravano o lo spiavano dalle finestre attente a non farsi vedere.

“Giustino era un gran bel ragazzo – racconta uno dei suoi tanti amici di allora -. Aveva un fisico che sembrava un armadio. Per me e per tanti altri era una gran brava persona. A Scigliano non ha mai fatto del male a nessuno. Certo, mia madre mi diceva sempre di stare attento e una volta mi fece uno scherzo che mi impressionò molto. Eravamo seduti su uno scalino e a un certo punto mi poggiò sul fianco qualcosa di duro. Io pensai che si trattasse della pistola e stavo per svenire. Quando si rese conto del mio pallore, iniziò a ridere e togliendo da dentro il giubbotto una chiave mi disse: “E una chiave riesce a procurarti così tanta paura?”. Poi, qualche tempo dopo, dato che aveva una macchina, una due posti, che non andava molto bene e voleva comprarne una nuova, fece la rapina all’ufficio postale di Motta S. Lucia e lo arrestarono. Anche in quel caso fu la sua abilità con le armi a farlo identificare immediatamente. Sparò un colpo verso un impiegato e il proiettile gli bruciò soltanto la basetta, non lo colpì. Quando i carabinieri videro quel capolavoro di tiro, non ebbero dubbi: era stato Giustino a fare la rapina e andarono a prenderlo. Allora fu condannato a sette anni di carcere. Nel 1974 io ero militare e lui era ricoverato all’ospedale di Cosenza perché aveva problemi di ulcera. Durante una licenza andai a trovarlo e quando mi vide la prima cosa che mi disse fu: “Ma non ti vergogni di indossare questa divisa?”. Lui era fatto così ma io non posso parlare male di lui perché con me e con tanti altri del paese, si è sempre comportato bene”.

Di Giustino De Vuono a Scigliano si parla ancora a bassa voce, ma dai racconti traspare ancora affetto e ammirazione nonostante la sua imponente storia criminale. Quando tornava dal carcere, tante donne di Diano preparavano i dolci per lui e lo accoglievano come si fa con un parente stretto che non si vede da molto tempo, così come erano in tanti a inviargli nei vari istituti penitenziari, pacchi con capocolli, salsicce e soppressate fatte in casa. Il suo paese non lo ha mai rinnegato, in quanto membro della comunità, lo ha sempre protetto e accolto con affetto.

Giustino ha sempre avuto con sua madre un rapporto di profondo affetto. Era una donna molto dolce e riservata. Quando lei fu ricoverata in ospedale, lui si travestì da suora e andò a trovarla. Molte altre volte l’ex legionario ritornò in gran segreto nella sua Scigliano e utilizzò vari travestimenti per passare inosservato. Pare che di notte poi, si nascondesse in una casupola di pietra che si trovava in aperta campagna, ma è difficile comprendere quanto ci sia di vero e quanto, invece, è frutto della fantasia popolare. Giustino De Vuono a un certo punto svanì nel nulla.

Giustino De Vuono nella legione straniera

La sua storia criminale iniziò dopo essere scappato dalla Legione straniera dove aveva imparato abilmente a colpire i suoi nemici al cuore sparando i colpi a raggiera.

Quando tornò in Italia, intorno agli anni ’70, era abbastanza preparato per diventare un killer di professione. E dopo qualche rapina locale, decise di fare il salto di qualità avvicinandosi alla ‘ndrangheta e agli ambienti del terrorismo, sempre alla ricerca di veri professionisti del crimine.

Nel 1975 partecipò al sequestro del giovane ingegnere Carlo Saronio ricercatore presso l’Istituto Mario Negri di Milano e figlio del chimico e imprenditore Piero Saronio, con il Fronte armato rivoluzionario comunista per finanziare il gruppo terrorista. Era Giustino a mantenere i rapporti con la famiglia e a farsi dare una parte del riscatto nonostante l’ostaggio morì lo stesso giorno del rapimento a causa di una dose eccessiva di cloroformio usata per stordire l’ingegnere. Qualche mese dopo fu arrestato e portato nel carcere di Mantova dal quale riuscì a fuggire nel 1977.

L’anno dopo, e precisamente il 16 marzo del 1978, giorno del rapimento di Aldo Moro, Giustino venne identificato in una foto scattata in via Fani subito dopo l’agguato in cui vennero uccisi i cinque uomini della scorta del presidente della Democrazia cristiana, insieme a una persona molto somigliante al boss della ‘ndrangheta Antonio Nirta di San Luca, nipote di Antonio, detto “Due nasi”.

Un particolare di non poco conto: da sette armi diverse furono esplosi 91 colpi e da una soltanto 49 che andarono tutti a segno. De Vuono fu riconosciuto anche da due testimoni come lo spazzino che usciva dal covo di via Gradoli 96, dove fu tenuto in ostaggio Moro.

Nello stesso giorno del rapimento delle Br in un comunicato del ministero dell’Interno si fece per la prima volta il nome di Giustino De Vuono definito un elemento estremamente pericoloso. Secondo gli inquirenti fu lui a sparare i 49 colpi che uccisero tutti gli uomini della scorta di Moro, ma è grazie alla testimonianza del brigatista-collaboratore Patrizio Peci e a un rapporto del Sismi, se De Vuono esce fuori dall’inchiesta.

Secondo i servizi segreti italiani in quel periodo l’uomo si trovava all’estero tra il Paraguay e il Brasile e quindi non poteva che essere estraneo ai fatti che gli venivano contestati. Eppure ci fu un altro testimone che riconobbe De Vuono a bordo di una Renault 4 rossa insieme a una donna in via Caetani la mattina in cui fu ritrovato il corpo senza vita di Aldo Moro, e sul corpo del presidente della Dc, vicino al cuore, c’erano i famosi colpi sparati a raggiera che era la firma di tutti i suoi omicidi dell’ex legionario. Tutte coincidenze?

Nel 1981 Giustino fu arrestato a Lucerna con documenti falsi e il 6 aprile del 1982 venne estradato in Italia, ma una volta consegnato alle autorità giudiziarie, fu inspiegabilmente lasciato andare.

L’ex legionario di Scigliano sarebbe morto per cause naturali a Carinola, in provincia di Caserta, nel carcere in cui De Vuono passò gli ultimi anni della sua vita, una vita piena di misteri che neanche le commissioni parlamentari e le valide inchieste giornalistiche, sono riuscite ancora a svelare.

A Scigliano nessuno si sente di affermare con certezza che Giustino sia realmente morto e continua a vivere attraverso i racconti fantastici di chi lo ha conosciuto e lo dipinge ancora coraggioso come nessun altro e l’unico capace di colpire un cerino a 25 metri di distanza.

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