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COSENZA – In una stanza angusta, il più della volte sporca. Magari con i medici che a turno si regolano anche per le pulizie. Mura annerite e vecchie, spazi spesso lontani anche da abitazioni, o in luoghi così angusti che «anche se urli chi ti sente?»: in Calabria fare guardia medica significa prepararsi a situazioni che sfiorano l’impossibile. «Il 90% delle donne – ci racconta una dottoressa – porta il marito, la sorella, il padre, la madre. Io stessa di notte non sono mai stata da sola. E lo dico anche alle mie colleghe che hanno il coraggio di stare senza nessuno. Non sanno quello che fanno». E chi è sola? «Qualcuno ha anche pagato una persona per stare con lei durante i turni».

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La situazione delle compagnie è praticamente tollerata da tutti visto lo stato pietoso delle guardie mediche e i rischi seri che si corrono. In ogni struttura ci sono almeno due letti. Uno per il medico, l’altro per l’accompagnatore. «E dove non ci sono sono state fatte collette per comprarlo». Inutile sperare in un servizio di sicurezza, vigilanza, una ronda di carabinieri e Polizia. «Macché, ci sono state situazioni dove sarebbero dovuti arrivare all’istante e mi sono sentita dire che non c’erano mezzi disponibili in quel momento. Altre volte no, si dimostrano ben disponibili. Infine chiamano anche, soprattutto nei casi di violenza domestica». La vita è davvero delle peggiori e l’utenza è davvero difficile. C’è tutta quella parte di cittadini sostanzialmente abbandonata dal resto del sistema sanitario, poi i casi di violenza, di abbandono familiare, di orrore domestico. Questi dottori sono uno scudo alla disumanità di un sistema. Una marea di disperazione da sostenere e curare, o da proteggere. E quindi si prendono contromisure serie. Qualche dottore di guardia medica gira con la pistola, tantissime dottoresse «hanno lo spray urticante». «Noi abbiamo un palo di legno bello grosso nascosto in un posto che sappiamo solo noi medici – continua – e lo ha portato un nostro collega maschio». Perché quasi tutti prima o poi prendono botte. «Ogni volta che apro la porta all’inizio del turno tengo il cellulare in mano, sbloccato e aperto. In modo da far partire una chiamata in qualsiasi momento». Questo in strutture veramente fatiscenti: vetri rotti in sala d’attesa, vecchie sedie di plastica scheggiate da bar da due lire, infissi a pezzi, persiane devastate. «I lavori ce li facciamo da soli: cinque minuti e la riparazione è fatta. Ti aiuta un vicino, tuo marito, chi c’è al momento con te».

L’alternativa è la spaventosa burocrazia delle Asp. Chiamare un responsabile, avvertire l’economato, far muovere il tecnico con reperibilità. Che spreco. Per non parlare dell’accessibilità: «Ci sono guardie mediche che non hanno un accesso per disabili e bisogna intervenire in prima persona». Mentre le situazioni serie a volte sfiorano il paradosso. «Magari trovi quella persona che arriva chiedendoti soltanto se può prendere due antipiretici, poi qualcuno con un edema polmonare e devi anche litigare con il 118, che certamente non sta messo meglio, per farti mandare un’ambulanza con un medico a bordo». La maggior parte sono giovanissimi freschi di laurea, resiste uno zoccolo duro prossimo alla pensione. E poi c’è la via di mezzo: chi si è già specializzato in medicina generale e magari è alla seconda specializzazione. Gente fa questo per un pugno di denari e in regime di convenzione. Vale a dire niente ferie, nessuna tutela contrattuale. Un sistema che fagocita e sputa. In spazi dove d’estate succede anche che la notte il sindaco decida di chiudere la fornitura d’acqua per evitare sprechi. Sì, ma la guardia medica?

«Durante una visita domiciliare ad un giovane, più volte segnalato dalle forze dell’ordine, mi sono ritrovata in una casa piena di coltelli. Prima di fare qualsiasi cosa li ho dovuti nascondere tutti». Poi ci sono territori vastissimi, frazioni sconosciute in zone impervie. «Se non ti fai accompagnare magari finisci in un burrone e chi ti viene a prendere? – continua – è praticamente un rischio costante. Non ti sente nessuno». Chi lo fa sta svolgendo una missione. Anche se attorno c’è una comunità che supporta e sostiene. «Spesso viene qualcuno giusto per parlare, per un caffè, chi dice di non preoccuparsi per la cena. E queste sono cose bellissime, che non ti fanno perdere la voglia di fare questo lavoro». Un po’ di luce.

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