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Quando al mattino si lancia una fugace sbirciata alla prima pagina del giornale, il lettore sensibile sa che deve guardarsi da un pericolo imminente: se mette l’occhio su una finestra, gli arriva un pugno in faccia.

Come è accaduto ieri mattina: “Rifiutata da quattro ospedali a 90 anni con un femore rotto finisce a Policoro”. Questa l’odissea di una cittadina di Caloveto. Il circuito ha segnato le tappe ospedaliere di Corigliano – Trebisacce – Cosenza – Rossano, ancora Trebisacce per approdare con mezzi propri al nosocomio di Policoro, provincia di Matera, Basilicata.

Siamo in piena tempesta di Covid19 – si dirà – e casi come questo possono finanche verificarsi. Se ne può prendere atto. Ma gli ospedali restano quattro. E quattro sono troppi.  È stata inventata lodevolmente la pratica di rimandare ad altro ospedale l’incombenza che il primo raggiunto non può accogliere.

Domanda (nostra): non è che il secondo e poi il terzo e poi il quarto si facciano la stessa domanda retorica: “E proprio noi dovremmo avere il posto disponibile che voialtri non avete? Non l’avete voi, non l’abbiamo neanche noi, siamo tutti sulla stessa barca, i posti mancano ovunque”.

Perché anche la storia dei posti che mancano può diventare una bella teoria, una specie di scudo che ripara dalla necessità del dover intervenire alla comodità che non si può. Ma questo è un pensiero oltremodo cattivo. L’abbiamo scritto perché alla mente si affaccia, è vero, ma non per questo non resta cattivo e mostruoso.

Se per caso, però, dovesse verificarsi, allora una prima minima conclusione sarebbe questa: la nostra sanità non solo è povera, ma si sta abituando ad essere povera, rendendosi ogni giorno che passa più impoverita che mai. Atteso poi, che ci troviamo in zona di pensieri cattivi e mostruosi, spingendoci oltre ne vorremmo azzardare uno totalmente assurdo. Ed è questo: circolasse per caso il malvezzo di una specie di sedicente eutanasia strisciante, ovvero: trattandosi di un soggetto novantenne, non c’è posto in ospedale perché ogni cura si risolverebbe in un nulla di utile? Non sia mai.

Per il semplice fatto che l’ospedale, prima ancora di assicurare un miracolo di guarigione o di una cura efficace e risolutiva, resta il luogo dell’ospitalità (ospedale) all’interno del quale si assicura “un fai quel che devi, segua poi quel può”. La non-accoglienza in ospedale non può giammai essere un discrimine che sancisce l’impossibilità di cura.

Don Pietro De Luca

L’ospedale che non accoglie è come se mandasse a dire: stattene a casa e muori dove sei.  A tanto, pare, non siamo ancora giunti in materia di salute, di vita e di morte. Se poi, dovessimo esserci dentro, che almeno qualcuno autorevolmente ce lo dica. E comunque, se c’è ancora volenterosi che volessero chiedersi in che stato è la nostra sanità e quale è il danno fin qui prodotto, non hanno da farsi ulteriori domande: basti meditare su accadimenti come questo verificatosi a Caloveto, nel versante dell’alto cosentino, per il quale la Basilicata resta il rifugio per i messi in fuga.

Non è questione soltanto di domandarsi dove sono i finiti i milioni di un tempo, è questione di prendere atto del dove, del come e della frequenza di certi casi di malasanità. Che costituiscono non solo la mortificazione della dignità del sofferente, ma anche della salvaguardia della vita esposta al rischio di scivolare su una buccia di banane.

È arrivato il Covid19 e ha messo tutti alla prova. È vero. Ha messo in ginocchio anche i meglio attrezzati. È vero. E quelli come noi che già prima non avevano occhi per piangere, che fine hanno fatto? Abbiamo fatto la fine di non poter accogliere in un ospedale – in un ospedale calabrese – una persona novantenne con un femore rotto, costretta a contorcersi dal dolore in un letto sul quale abitualmente si sta per ristoro. Questa cronaca andrebbe posta a premessa del capitolo che vorrebbe indagare sulla condizione della nostra sanità. Perché è solo facendo la storia a ritroso che si godrebbe della luce necessaria per rivisitare il passato. E che ora è drammatico presente.

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