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“Se qualche traccia di un possibile percorso resta nei nostri cuori, spesso nemmeno visibile da occhi resi troppo miopi, possiamo riprendere il filo di un discorso che non ci apparirà, allora, e solo allora, né remoto né sibillino.” (A.M. Bonanno)
Vivere in penuria d’aria e lontano dai corpi, danzando quotidianamente con lo spettro del contagio. Alla maniera di un esperimento in vitro abbiamo vissuto i deliri pandemici come immersi in un sortilegio. Programmata a fasi, la nostra esistenza è stata cadenzata da governanti e guru della “neutra” scienza. Eppure, obbligati a guardarci, in fila al supermercato come all’ufficio postale, abbiamo faticosamente cercato di riconoscerci come specie. Chi eri dietro quella buffa mascherina? Mi hai riconosciuto? Mi sembrava di rammentare quegli occhi e forse un giorno avevamo anche desiderato di parlarci senza poterlo fare. Magari andavamo di fretta o non era conveniente. Chissà. E nel sortilegio, quasi come in un viaggio lisergico, abbiamo cominciato a tendere sempre di più le nostre braccia alla ricerca di un abbraccio o anche solo di una carezza.
Così le gambe, che per loro conto sembravano riprendere veloci il cammino senza sentire stanchezza e affanno. Il passo allungato a dismisura oltre le leggi della fisica e la percezione del mondo, d’incanto, era quella desiderata da sempre. Nella carestia di contatti si espandevano i sensi assopiti dalla “normalità” che lo sciame virale aveva reso inservibile, e, dietro le mascherine che coprivano i volti e rendevano difficile la parola, abbiamo incrociato finalmente sguardi ed emozioni.
Rosaria dopo pochi giorni passati ad arrovellarsi a seguito della chiusura per lockdown del suo bel negozio di tendaggi si mise senza batter ciglio a confezionare mascherine e a donarle gratuitamente a tutti. Nelle farmacie per averne una dovevi sganciare 15 euro. Erano bianche e sicure, però. Cluster di vita buona contro la barbarie economica. Anche la natura si riprendeva il proprio posto e le acque della laguna ritornavano limpide mentre i delfini amoreggiavano nel porto di Cagliari.
Crepe a un non vissuto spacciato come vita si erano aperte nella clausura e mentre si espandevano forme di mutuo soccorso anche i più restii iniziavano a chiedersi che cosa era diventato questo mondo. Il virus ne aveva svelato l’innaturalità rendendone palese l’orrore. Un po’ come nella Svastica sul sole di Philip K. Dick dove a tutti viene concessa una rivelazione sul mondo in cui vivono e che sembrava a loro normale, per quanto mostruoso. Ma il mondo della merce non poteva permettere che si insinuassero dubbi, o che le falle diventassero sempre più visibili.
Necessitava organizzare il divenire nell’unico modo conosciuto e praticato nei momenti di crisi: burocratizzare e militarizzare, espandere obblighi e divieti in un contesto di propaganda martellante.
Propaganda accompagnata da un linguaggio patriottico, unificante, rassicurante che presupponeva però che tutti, ma proprio tutti, agissero secondo dettato. Obbligo di vaccino e green pass diventano il mantra, le armi necessarie per la liberazione che verrà. Chi non è d’accordo o semplicemente esprime dei dubbi è un disertore. Concetti che ritroviamo ai giorni d’oggi nei tanti strilloni intenti a lucidare armi.
Giorgio, invece, si ritrovò di colpo senza il suo luogo di lavoro. Lavoro a distanza dissero. Come in tanti, tra l’altro. “Per un periodo sarà necessario lavorare da casa, troppi rischi” gli comunicarono con benevolenza. Bene, nel frangente smantellarono il fabbricato dove lavorava insieme ad altre decine di persone. Da cinque anni è relegato in casa davanti a un computer. Nemmeno il vaccino o il green pass poterono, non erano necessari. Durante la giornata ogni tanto evade saltellando nel corridoio tra bagno e cucina.
L’economia o la vita. Avremmo dovuto aggrapparci alle verità che venivano a galla, ma invece abbiamo messo la testa sotto il patibolo nel mentre i governanti ci imponevano il loro stato di eccezione. Bisognava comprendere fino in fondo il disastro causato da un mondo in rovina diventato sempre più evidente in questi tempi di paure e di guerre. Le patologie in aumento non sono solo figlie dalla tossicità del cibo che mangiamo e dell’aria malsana che respiriamo, ma sono figlie delle condizioni di non-vita generalizzate. Le sofferenze psichiche sono crescite a dismisura dopo la pandemia. Non solo a seguito delle costrizioni subite, ma forse anche per aver avuto la possibilità di osservare per la prima e forse unica volta sprazzi di un mondo liberato dall’aberrazione della normalità.
Gabriella e Alberto conoscono i prodotti naturali e la loro applicazione nell’ambito della bioedilizia come pochi altri in Italia. La cura dei dettagli, i giusti tempi dell’applicazione, le terre, la calce, i colori. Un mondo stupefacente e pieno di bellezza. Alberto figlio della partigiana Norma trucidata dai nazifascisti nel 1944 e Gabriella architetta e artista perennemente inquieta portavano avanti da anni i loro lavoro di restauro tra le colline toscane, terra di Alberto. Il mondo della merce li ha espulsi e la pandemia li ha travolti. L’industria ha imposto la falsificazione del prodotto naturale e la conseguente applicazione senza bisogno alcuno di conoscenza. Hanno dovuto lasciare tutto e riparare in Calabria, terra di origine di lei. Sono stati accolti da una comunità umana ospitale e solidale. Da queste parti in qualche modo si resiste alla brutalità.
Il mondo della merce divorato dalle sue stesse contraddizioni, depreda le ultime risorse di questa terra. La violenza che ha sempre caratterizzato il suo agire riporta a galla gli orrori del colonialismo. Il possesso delle terre rare, necessarie a far funzionare molta della tecnologia che utilizziamo, compresa quella militare, è campo di battaglia e di sfruttamento. I disperati del mondo scavano miniere inzuppate di acidi. Voragini infernali che provocano morti e disastri ambientali.
Qui e ora, siamo testimoni di un tragico spettacolo senza riuscire ad immaginare il mondo che verrà. E soprattutto senza più immaginare il nostro.
Una umanità smarrita e a volte dolente che ha smesso di rincorrere l’utopia, mentre un sistema crolla senza che nessuna delle nostre parole abbia inciso su questo. La barbarie avanza a certificare una violenza senza alcun diritto e da questa parte del mondo restiamo attoniti, incapaci di comprendere, ancor prima di ribellarci. Mentre i bambini di Gaza vengono fatti a brandelli in un silenzio assordante, un mondo moribondo si preoccupa di riarmarsi, ultima spiaggia per far sopravvivere un meccanismo produttivo e finanziario non più sostenibile.
La feccia che governa il pianeta a qualsiasi latitudine, supportata dai suoi anchorman non conosce altro modo per continuare a vivere. I mercanti della Commissione europea, luogo di specchiata democrazia secondo molti dei nostri illuminati analisti politici, pensano bene di ingrassare i produttori di armi con la sola raccomandazione che dovranno risiedere in una delle belle nazioni di questa Europa così liberale, così accogliente, così diversa da tutti. Andatelo a raccontare alle migliaia di morti che nutrono pesci nel Mediterraneo e alle altre migliaia che hanno perso la vita lungo le rotte balcaniche o ammazzati nella “foresta dei morti senza nome” al confine polacco.
Per i sopravvissuti del fronte sud si sperimenteranno i nuovi CPR costruiti in Albania, lontano dagli occhi dei nostri sempre più insofferenti connazionali. E poi in Albania sono esperti in isolamento e controllo. La Commissione inoltre, per facilitare l’adattamento ai tempi bellici che verranno, ha raccomandato attraverso le parole di due eleganti signore, con le quali si consiglia di non prendere nemmeno un caffè, di acquistare il Kit per la sopravvivenza che ci aiuterà a campare almeno 72 ore. Quanto sperimentato con la pandemia in termini di comunicazione non può andare disperso. Tipologie di Kit di varie entità, dimensioni e prezzo sono facilmente ordinabili nel bazaar della rete. Nel frattempo nella meravigliosa Europa, gli stati nazionali mettono in atto, con urgenza, sempre più stringenti misure securitarie. Il racconto distopico del mondo è nel suo pieno sviluppo. Sta a noi, disperatamente, di inventarci un modo che inceppi questa deriva mortale.
Quando ero ragazzino non avevo la bici, ma osservavo quella tutta di ferro, pesantissima, che mio padre usava per andare al lavoro. Tonino invece aveva la sua, adatta alla nostra età, bella. Tonino era il mio amico del cuore. Il nostro quartiere a quei tempi era pieno di ragazzini e in una estate di metà anni sessanta ci ritrovammo in tanti con un’unica bici, la sua. Non lontano da casa nelle vicinanze del torrente Campagnano c’erano le dune. Alte, rotondeggianti, di terra d’argilla. Incredibilmente polverose d’estate. Lì ci inventammo la nostra infinita gara di cross, su e giù per dune. Veloci e resistenti. Impolverati, sporchi, sudati.
Ci sembrava di volare tra un fosso e una collinetta. Tutti a turno con un’unica bici. E si sprintava felici, fino allo sfinimento. Le nostre erano famiglie modeste e i nostri padri erano stati tutti in guerra. Il mio aveva attraversato il Don per ritornare a casa, a piedi o con mezzi di fortuna per migliaia di chilometri. I fantasmi del gelo e del sangue lo accompagnarono per tutta la vita.
Noi tutti tenevamo in conto quella lezione, ma avevamo necessità di affrontare la nostra personale ricerca di un mondo diverso. I potenti e le guerre ci facevano ribrezzo e il nostro disprezzo con gli anni cresceva sempre di più. Oggi più di prima. Ad unirci per sempre fu quella bici che sapeva volare. Come un’utopia.
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