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Carlo Rivolta

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COSENZA ­– Una fiamma che brucia in quindici anni, in uno con il fuoco sacro del giornalismo e della militanza, un volto affilato di cui restano pochissime fotografie, un’aura mitologica alimentata da una fine maudit. Ma non solo.

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Oggi sono quarant’anni che Carlo Rivolta non c’è più: ecco una biografia del cronista di origini calabresi che raccontò il movimento e il terrorismo dal di dentro, si calò con occhio antropologico nei contesti oggetto delle sue inchieste facendo scuola ma senza il mito della “imparzialità”.  

LA VITA

Infanzia e adolescenza da famiglia della media borghesia romana negli anni del boom. Studia al convitto nazionale. Con il papà il rapporto è più che difficile. Si narra che Carlo a 17 anni uccide un gattino in casa per errore, il padre repubblichino lo deride con freddezza: “Io alla tua età avevo ucciso tanti uomini”. Cresce tra letture – ama Bertrand Russell – e il sogno del giornalismo che si avvererà subito. Dopo la licenza liceale nel 1968 inizia il decennio in cui tutto accade, per Carlo: sarà come un lungo ’68 di attivismo, politica e giornalismo che culminerà con l’autodistruzione. Si brucerà tutto in meno di tre lustri.

IL GIORNALISMO

Avvocato mancato, una certa somiglianza con l’altro grande calabrese-a-Roma Rino Gaetano, a 19 anni inizia a scrivere per Epoca, poi rifiuta il praticantato all’Umanità (organo del Psdi). Siamo entrati nei Settanta, il decennio caldo. Nella direzione nazionale del Psi, in quella stessa via del Corso che è il regno del Divo Giulio Andreotti, Carlo si trova nel luogo di passaggio di giovani esuli portoghesi e greci, il leader è Giacomo Mancini e lui è nell’ufficio stampa.

Professionista nel ’71 (22 anni), due anni dopo approda a Paese Sera, dove si fa notare per un’inchiesta sulle carceri di Rebibbia e Regina Coeli e per le cronache sulla strage di Primavalle. Massimo Lugli: “Il giubbotto di renna sdrucito, la barba incolta, la moto, una fantastica Honda 350 verde che coccolava quasi quanto i suoi cani”.  Bob MarleySan Francisco altri due suoi grandi amori, l’orecchino un altro segno distintivo.

Rivolta affida proprio a Lugli, futuro re dei “neristi” capitolini il primo servizio (aprile ’75, Paese Sera). “La lettura delle sue straordinarie cronache su Repubblica, per molti della mia generazione, fu la prima crepa di dubbio, quasi un bagno di autocoscienza”, scriverà Lugli.

GLI ANNI A REPUBBLICA

Arriva a Repubblica grazie al Pdup di Mario Capanna (via Luciana Castellina): è un militante in zona Flaminio-Salario e responsabile dei notiziari di Radio Città Futura. Tra le dimissioni a Paese Sera e l’uscita del quotidiano di Eugenio Scalfari scrive per il manifesto, gratuitamente e con pseudonimo. È coetaneo di Gianni Riotta, Lucia Annunziata, Gad Lerner ed Enrico Deaglio, che lo ha paragonato a Saviano (“entrambi sono giovani che partono dal loro vissuto”).

Il giornalista Concetto Vecchio ha scritto che “Carlo era molto fragile, anche fisicamente dava questa impressione, magro e smunto, la faccia da indio, un freak gentile. Era un eroe romantico, un regista dovrebbe farci un film”.

Per Miguel Gotor, “da cronista del movimento divenne il cronista di se stesso, della propria crisi esistenziale e psicologica in cui filtrava il vissuto comune a tanti suoi coetanei. (…) Dall’iperpolitica all’antipolitica, dalla rivoluzione al riflusso” (Repubblica 29/3/2012).

Paolo Guzzanti ha raccontato che si portava dietro una grossa Beretta calibro 7,65 perché «con i compagni non si sa mai».

IL DOPPIO DISSIDIO

Si autodefinì così: “Un giornalista critico verso la mia professione e, dal punto di vista politico, un militante critico verso la mia stessa area di appartenenza”. Non è un caso che si ritrovi tra più fuochi: accusandolo di incoerenza, l’ala violenta del movimento studentesco gli dà del “borghese”, i più moderati colleghi di Repubblica lo considerano un estremista. Per molti è un infame. Per il Pci era “giovanilista”, per Rossana Rossanda – che lo paragonò a un cronista del Tempo – un eterno “giovanotto”.

Incurante, continua a raccontare il movimento da dentro (ma secondo la mamma Isabella è anche per queste pressioni che cade nella tossicodipendenza, anticipando il primo buco di qualche anno rispetto al racconto che Carlo fece a Deaglio): durante il comizio del segretario della Cgil Luciano Lama all’Università di Roma (18 febbraio ’77) scrive che il via agli scontri fu dato dal servizio d’ordine del sindacato.

“Certo non ero obiettivo, ma non penso si possa esserlo” (da un’intervista a Prima Comunicazione, aprile 1981).

Di certo è insubordinato. Sandro Curzi, vicedirettore a Paese Sera, una volta per punizione gli aveva fatto scrivere solo notizie a una colonna per 5 mesi. Anni dopo farà storcere il naso ai suoi colleghi la decisione di firmare da direttore responsabile il Metropoli di Pace, Piperno e Scalzone.

I DETRATTORI A SINISTRA

I suoi pezzi danno fastidio. Un “volscio” lo schiaffeggia in piazza il 12 marzo ’77: è un tumulto che fa sembrare Black Bloc  i pochi razziatori che impauriscono i tre quarti del corteo. Viene espulso dalla Casa dello studente. Radio Onda Rossa legge i suoi articoli e li chiosa velenosamente. È oggetto di lancio di monetine, la gente sputa a terra ed esce dal ristorante dove lui è appena entrato, riceve un sasso in fronte a ponte Garibaldi durante un corteo per Giorgiana Masi (è il 12 maggio ’79): 12 punti di sutura “e in alcune case ‘del movimento’ quella sera si brindò” racconterà Carlo. Che, sempre nel 1979, viene minacciato di morte dalle Brigate Rosse di Renato Curcio: “delatore” condannato a mezzo comunicato stampa proveniente dall’Asinara.

Indicativo un episodio sotto casa: vede una coppia di fidanzatini baciarsi e per un attimo teme che possano essere terroristi. Eppure rifiuta il porto d’armi suggeritogli da Emilio Santillo dell’Antiterrorismo.

Ha 30 anni, minacce analoghe a quelle delle Br gli erano arrivate da Autonomia Operaia (lui aveva militato in Avanguardia Operaia): le prime volevano infiltrarsi nel movimento del ’77, la seconda egemonizzarlo.

IL RAPIMENTO MORO

Il 16 marzo ‘78 firma in prima il pezzo di apertura dell’edizione straordinaria di Repubblica sul rapimento Moro, forse uno degli articoli più letti della storia del giornalismo italiano (dopo il periodo a Repubblica – proprio il caso Moro aveva creato delle fratture insanabili con la linea del giornale di Scalfari – rifiuterà un’offerta dell’Europeo di Mario Pirani e sceglierà di collaborare con Lotta Continua).

Estate 1980: mentre Andrea Pazienza cerca il “Segno80” a New York anche lui è in America per raccontare la vita del pusher.

Nel novembre 1980 è l’inviato di Repubblica nei luoghi dell’Irpinia devastati dal terremoto. Due demoni e due scritture convivevano in Carlo. Dalla cronaca da Conza tra le macerie grigie si può passare alla digressione lisergica e assolata di “Una gita a Fasano” in cerca della “robba”. È il maggio 1981. Un racconto immaginario, o autobiografico, o ancora raccolto in una delle soste nell’Alto Jonio cosentino dove in seguito mamma Isabella “Lilly” Chidichimo – morta nell’estate 2011 – trasformerà “Casa Carlo” in un agriturismo a Torre di Albidona.

Estate 1981: ecco Carlo nella vicina Trebisacce con Deaglio, Tony Capuozzo e Franco Travaglini, colleghi di LC. Non si separa un attimo dal suo husky chiamato Beer. E dall’eroina.

IN VIA DEI PRESTINARI

A settembre torna sul campo: va tra i profughi nel Peshawar. Progetta un’inchiesta sul Sud (lettera a Deaglio 14/12/81): lo sguardo di Carlo si allarga ai reportage sulla guerra in Afghanistan e alle riflessioni sui cambiamenti della società meridionale. Ma non farà in tempo a scriverne per come vorrà.

Lo zio Rinaldo Chidichimo proverà a farlo disintossicare con la cura del sonno in una clinica romana, ma il tentativo fallisce.

Il segretario di redazione Montesperelli: “Dice che torna fra 10 minuti e sparisce per tornare sfatto”. Si chiude sempre più in se stesso. Nel giornale coltiva però l’amicizia con Vanna Barenghi, madre della futura “Jena” Riccardo, intanto è sbocciato l’amore per Francesca Comencini, più giovane di lui di 10 anni (la sua opera prima “Pianoforte” ne narra in forma anonima la tossicodipendenza).  Segue la tragedia di Vermicino, nello stesso anno Carlo torna nelle carceri, nei luoghi dei suoi primi reportage per Paese Sera.

Lotta Continua invece chiuderà nell’estate della vittoria Mundial, Carlo quel mondiale non lo vedrà proprio. È l’11 febbraio 1982, in via dei Prestinari: il volo fatale dalla finestra di casa sfondata forse in preda a una crisi d’astinenza (un amico lo aveva chiuso in bagno), poi il coma. «Il suo atteggiamento disinvolto con le droghe forse gli fu fatale quando cercò di raggiungere una stanza chiusa a chiave passando dal cornicione», ricostruirà Paolo Guzzanti.

Rivolta muore nella notte tra 16 e 17 febbraio, a nemmeno 32 anni ma a 5 esatti dalla sua cronaca passata alla storia sui fatti della Sapienza. L’attacco di quel pezzo ha fatto storia: “Alle otto del mattino…”.

I funerali si tengono nella basilica di Santa Maria degli Angeli, Massimo Lugli scriverà il pezzo per Repubblica. È sepolto a Trebisacce.

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