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La lapide ad Acquappesa che commemora i soldati fucilati e il generale Luigi Chatrian

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L”8 settembre di 80 anni fa, proprio nel giorno dell’armistizio, ad Acquappesa l’eccidio di cinque soldati accusati di diserzione

OTTANT’ANNI fa l’Italia siglò l’armistizio che sancì de facto la resa incondizionata nei confronti degli Alleati. L’8 settembre da allora ha guadagnato i galloni di data storica. Dopo tre anni di guerra l’Italia alzò bandiera bianca ma tante altre sofferenze dovevano essere ancora patite. Giorni convulsi in cui l’unica certezza era la confusione più totale. Mussolini era stato arrestato poco più di un mese prima, gli Alleati erano sbarcati in Sicilia e a Reggio Calabria ed era chiaro che la guerra era ormai persa.

La pensavano così Salvatore De Giorgio di Cittanova (classe 1908), Francesco Rovere di Polistena (classe 1908), Francesco Trimarchi di Cinquefrondi (classe 1908), Saverio Forgione di San Eufemia d’Aspromonte (classe 1912) e Michele Burelli di Sinopoli (classe 1908), appartenenti al 76° Battaglione di Fanteria Costiera che decisero di abbandonare la postazione di Acquappesa, sul Tirreno cosentino, dove erano stati assegnati. Insieme ad altri quattordici commilitoni scapparono dalla caserma per far ritorno a casa.

Una diserzione in massa dettata non dalla codardia ma dalla volontà di rivedere le loro famiglie e di non combattere più una guerra in cui non avevano mai creduto. Era il 4 settembre del 1943 e gli anglo-americani avevano già occupato Reggio Calabria, Scilla e Bagnara. La risalita della Calabria era stata pressocché incontrastata con i tedeschi che, al netto di qualche scaramuccia, premevano per raggiungere la linea Gustav ripiegando alla svelta.

Continuare a combattere in quelle condizioni era semplicemente assurdo. Il Duce, che la guerra l’aveva voluta, era imprigionato in qualche località segreta (sarà liberato dai nazisti il 12 settembre sul Gran Sasso), gli Alleati avanzavano impetuosamente macinando chilometri di ora in ora. Gli ufficiali erano totalmente in balia degli eventi e aspettavano ordini e direttive che non arrivarono mai. I soldati italiani erano stanchi e demotivati. Si erano battuti con coraggio sul fronte greco-albanese, nell’inferno di ghiaccio della Russia e in Africa nord orientale ma non era bastato.

Il divario di mezzi, armi, equipaggiamenti e uomini era incolmabile. La diserzione fu ovviamente ben presto scoperta e venne dato l’ordine di catturare i soldati che avevano abbandonato le armi e la postazione. I cinque militi, forse per ingenuità, avevano sottovalutato la gravità della loro azione credendo verosimilmente di non poter essere più puniti da un esercito ormai allo sbando. I cinque speravano di raggiungere entro pochi giorni a piedi le loro abitazioni o, con un po’ di fortuna, magari di trovare un passaggio di qualche furgone o camion. Furono però rintracciati e imprigionati.

Il colonnello Remo Ambrogi, comandante del battaglione, si mostrò a dir poco adirato e l’istintiva reazione fu di comminare una pena esemplare ai cinque soldati, ovvero la fucilazione. Il cappellano militare tentò di farlo desistere e in parte ci riuscì. Anche gli altri ufficiali cercarono di placare le ire del colonnello. Il buon sacerdote, anche per prendere tempo, suggerì al comandante di contattare i suoi superiori per decidere sul da farsi. Un consiglio che tuttavia si rivelerà drammaticamente sfortunato.

Il generale Luigi Chatrian, comandante della 227° Divisione con sede a Castrovillari infatti, messo al corrente dei fatti, non esitò a ordinare la fucilazione dei disertori. Aostano, già comandante della Scuola Militare della “Nunziatella” di Napoli, durante il conflitto ricoprì diversi incarichi operativi. Fu poi chiamato da Bonomi come sottosegretario al Ministero della Difesa, incarico confermato anche da Parri e da De Gasperi fino al dicembre del 1947. Eletto alla Costituente nelle fila della Democrazia Cristiana. Rieletto nel 1948, venne nominato presidente della Commissione Difesa.

Alla fine della legislatura si ritirò a vita privata. Il colonnello ebbe quindi l’avallo gerarchico per l’esecuzione. Ciò nonostante, sbollita l’iniziale collera, Ambrogi si mostrò titubante consapevole forse dell’orrore di cui sarebbe macchiato e del senso di colpa che lo avrebbe dilaniato. Accettò che il cappellano si recasse a Castrovillari per convincere Chatrian ad annullare o quanto meno a rinviare la fucilazione.

Il sacerdote dopo molte insistenze fu ricevuto da Chatrian che, dopo aver ascoltato il disperato appello del cappellano militare, si mostrò glaciale e non tornò sui suoi passi. I cinque disertori dovevano essere passati per le armi. Sarebbero stati d’esempio per altri potenziali disertori e a nulla valsero le suppliche del cappellano. A quel punto il destino dei soldati calabresi era segnato. Ambrogi avrebbe potuto rinviare l’esecuzione ma non annullarla. Per di più nel pomeriggio dell’8 settembre arrivò un messaggio dello stesso Chatrian che ordinava ad Ambrogi l’esecuzione dei cinque militari entro il termine perentorio di ventiquattro ore.

Nel marasma generale con gli angloamericani che dilagavano in tutta la Calabria il generale ebbe addirittura l’accortezza e la premura di intimare l’esecuzione. Alle 19.45 venne poi diffuso il proclama di Pietro Badoglio che annunciava l’armistizio. Un mix di gioia, paura, speranze e illusioni pervase l’Italia. Ma nemmeno dopo questa comunicazione si decise di risparmiare la vita dei cinque militi.

La fredda burocrazia, l’ottusità dei vertici militari e l’assurdo risentimento prevalsero sul buon senso e sulla pietà. Intorno a mezzanotte i soldati vennero fucilati nei pressi del cimitero di Acquappesa ai piedi di un vecchio albero di olivo. I cinque corpi furono posizionati in bare appositamente preparate nei giorni scorsi e tumulate alla meno peggio. Dopo circa una settimana le famiglie furono informate della morte dei loro congiunti. In un primo momento si credette che la fucilazione fosse opera dei tedeschi ma ben presto emerse la verità. Successivamente l’Alto Commissariato per le epurazioni chiese al Tribunale Militare di Napoli che gli ufficiali responsabili della fucilazione dei cinque militari italiani fossero rinviati a giudizio per omicidio.

Chatrian si giustificò affermando di non aver riconosciuto alla radio la voce del maresciallo Badoglio e di avere avuto notizia della famosa “Memoria 44 op” solo l’11 settembre. Ambrogi affermò di aver ubbidito all’ordine di un suo diretto superiore. Come riportato nel prezioso libro di Antonio Orlando “L’eccidio di Acquappesa” alla fine «Chatrian venne prosciolto da ogni addebito, mentre il Ambrogi venne rinviato a giudizio per omicidio colposo e usufruì, in un primo momento, dell’amnistia».

Nel dopoguerra la Corte dei conti, al termine di un lunghissimo iter, avviato intorno al 1957, con sentenza del 4 aprile 1968, riconosce a Rosa Bruzzì, vedova De Giorgio, il diritto alla pensione di guerra a decorrere dal 1° agosto 1946. La Corte considerò la fucilazione del De Giorgio e dei suoi quattro commilitoni, «un gravissimo errore» e valutò l’ordine di fucilazione «un atto illegale grave» dichiarando che «la morte del soldato Salvatore De Giorgio verificatasi in data 8 settembre 1943 è avvenuta per cause dipendenti da servizio di guerra».

L’amministrazione comunale di Acquappesa, sotto la consiliatura di Giuseppe Pierino, ha dedicato ai cinque militari una stele in ricordo del loro sacrificio, posta esattamente nello stesso luogo dove vennero fucilati. Nel settembre del 2006, il Comune di Polistena ha voluto ricordare con una lapide il sacrificio di Francesco Rovere, fucilato a 31 anni insieme con gli altri quattro giovani conterranei. La lapide nel luogo dell’esecuzione recita «Qui né la ragione né la pietà umana prevalendo ma ancora l’assurda regola della guerra nella notte tra l’8 e il 9 settembre 1943 furono passati per le armi».

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