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«Senza spari, hai visto come è cambiato tutto?». Sembrava un’inchiesta da manuale, quella condotta dalla Dda e dai carabinieri del Nucleo investigativo di Milano, che nei giorni scorsi ha portato all’operazione “Hydra”, dal mostro mitologico con sette teste che una volta tagliate ricrescono. Ma il gip Tommaso Perna ha letteralmente smontato la tesi di una super associazione mafiosa composta da cosche di Cosa Nostra, ‘ndrangheta, camorra.

Nessun “sistema mafioso lombardo”, contrariamente a quanto ipotizzato dalla Dda. Perché non ci sono l’intimidazione, tipico modus operandi delle mafie, né forme di violenza o minaccia nell’infiltrazione nei settori economici e il Gip ritiene buona parte delle estorsioni contestate non gravi o indimostrate.

Eppure proprio quell’affermazione, intercettata dalla voce del napoletano Giancarlo Vestiti sembra emblematica delle tendenze evolutive della mafia. “Senza spari, hai visto come è cambiato tutto?” dice Vestiti a Gioacchino Amato, imprenditore siciliano ritenuto il fulcro dell’organizzazione criminale nel Milanese. E sembra un manifesto della nuova criminalità organizzata: non serve sparare per fare affari tra noi.

Ecco dunque le mafie silenti, delocalizzate e camaleontiche di cui parlano da anni, in faldoni voluminosi, le Procure settentrionali, le cui conclusioni sono avvalorate da sentenze spesso passate in giudicato. Le mafie che non sparano perché, come osservano gli analisti più autorevoli, ormai ci si mette d’accordo grazie alle collusioni con una vasta zona grigia composta da pezzi di imprenditoria, politica e istituzioni.

Ma anche le mafie che non disdegnano i metodi violenti del passato che all’occorrenza vengono rispolverati. Dalle carte dell’inchiesta emerge la voce di Giacomo Cristello che minaccia un imprenditore per costringerlo a siglare la documentazione finalizzata all’estromissione dal suo ristorante, «molla tutto, firma, sennò veramente ti ammazzo, non avanzi una lira, dacci tutto». Cristello è considerato il braccio destro di Massimo Rosi, presunto reggente del “locale” di ‘ndrangheta di Legnano e Lonate Pozzolo, articolazione lombarda della cosca Farao Marincola di Cirò. E Rosi era presente, a quanto pare, anche quando il coindagato Amico trafiggeva con una penna la mano di un’altra vittima. Addirittura il gesto con cui mima l’episodio viene videoripreso dagli inquirenti.

Eppure c’è poca violenza, secondo il gip Perna, che sembra non sia interessato manco al collante economico che lega una ventina di summit con la partecipazione dei componenti delle tre mafie. Anche il fatto che figurino negli assetti societari presunti esponenti delle varie compagini criminali, non è stato considerato un elemento valido per corroborare la tesi accusatoria dell’unitarietà della super associazione mafiosa.

Una struttura rara nella storia della criminalità organizzata italiana, ma che ha dei precedenti. Nella Lombardia dove si muovono i 26 “locali” di ‘ndrangheta finora censiti, si tennero le prime riunioni del “consorzio”. Storici collaboratori di giustizia ne parlarono tanto tempo fa collocando la nascita della struttura organizzativa comune già negli anni Ottanta. Addirittura le prime riunioni in cui venne presentata la strategia stragista di Cosa Nostra, poi condivisa dalla ‘ndrangheta, si tennero in Lombardia.

Ma quella indagata dalla pm Antimafia Alessandra Cerreti è una struttura orizzontale che dispone di una rete logistica costituita da uffici commerciali e società. In questi uffici si sono tenute diverse riunioni “miste”. Intorno allo stesso tavolo c’erano esponenti del “locale” di ‘ndrangheta di Legnano e Lonate Pozzolo (proiezione al Nord del “locale” di Cirò) di altre famiglie mafiose calabresi come Iamonte di Melito Porto Salvo e Romeo di San Luca, del clan palermitano dei Fidanzati, di quello gelese dei Rinzivillo e del mandamento di Castelvetrano, con i fedelissimi del boss Matteo Messina Denaro (quando era vivo). Gli ambasciatori della camorra appartenevano al clan Senese, radicato in particolare a Roma.

E adesso, tra magistrati che, legittimamente, la vedono in modo diverso, sarà braccio di ferro perché la Dda ha già annunciato ricorso al tribunale del riesame. Ma intanto sembra che concetti ben noti agli addetti ai lavori (e non solo) non siano stati presi in considerazione dal gip.

«Le mafie si insinuano nei consigli d’amministrazione, nelle aziende che conducono traffici illeciti – al Nord e nel Mezzogiorno». Nel maggio 2022 era stato Mario Draghi a pronunciare la parola “Nord” prima di “Mezzogiorno”. E, forse, era proprio questa la vera novità emersa dal discorso dell’ex premier nella sede di Milano Dia, oggi che sappiamo da tempo che il grosso del fatturato delle mafie si concentra nelle aree più produttive del Paese.

Era emblematico anche il luogo in cui Draghi parlava in occasione dei 30 anni dell’istituzione della Dia e dei cinque della sede di Milano. A Milano, dove opererebbe colui che viene considerato l’erede di Matteo Messina Denaro, Stefano Fidanzati, esponente di vertice di una famiglia mafiosa da sempre schierata con i “corleonesi”. La famiglia Fidanzati, nessun esponente della quale è stato arrestato nell’inchiesta “Hydra”, avrebbe svolto peraltro un ruolo determinante nell’affare del superbonus 110%, fiutato dal presunto consorzio mafioso dall’estate 2020.

Il gip non ravvisa il pericolo di fuga che secondo gli inquirenti è di nuovo attuale dopo l’arresto e la scomparsa di Messina Denaro e i servizi giornalistici sui possibili successori. I pm temevano che Stefano Fidanzati potesse seguire le orme del fratello Gaetano, più volte latitante. Quando “don Tanino” fu pizzicato a Buenos Aires dopo tre anni, nel 1990, il primo magistrato che andò ad interrogarlo si chiamava Giovanni Falcone.

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