Graziano Mesina
4 minuti per la letturaMorto a 80 anni tra rapimenti e fughe dal carcere: gli intrecci con le ’ndrine, i legami calabresi di Mesina e quel ragioniere di Platì
“Gratzianeddu” è morto. Graziano Mesina, il più famoso esponente del banditismo sardo del dopoguerra, aveva 80 anni. Era stato dimesso da poche ore dal reparto penitenziario dell’ospedale San Paolo di Milano, dov’era stato ricoverato, da persona reclusa nel carcere di Opera, per un tumore nella fase terminale. L’ex primula rossa del Supramonte ha terminato i suoi giorni lontano dalla sua Sardegna, da Orgosolo. In provincia di Nuoro ha trascorso gran parte della sua vita, tra le montagne della Barbagia, formando una delle bande più temute e pericolose del territorio.
Ma nel corso della sua vita, il bandito sardo non ha disdegnato intrecci e relazioni anche con esponenti della ‘ndrangheta calabrese. Le fughe dal carcere erano le sue “specialità”, ma nel suo curriculum criminale non mancavano furti, rapine e sequestri di persona. Mesina ha trascorso gran parte della sua vita in carcere, e tante volte latitante dopo le sue clamorose evasioni, 22 quelle tentate, 10 quelle riuscite. La sua figura ha ispirato film, libri e documentari, contribuendo a renderlo una delle figure più note del mondo criminale italiano. Mesina è stato definito il «re dei sequestratori» dal New York Times nel 1992. Comunque, il «bandito gentiluomo», di sequestratore che trattava nel migliore dei modi i prigionieri nel famoso “Hotel Supramonte” cantato da Fabrizio de André.
Mesina in quarta elementare prese a sassate il maestro, lasciò la scuola e andò a fare il servo pastore come i fratelli. Il suo primo arresto arriva a soli 14 anni per possesso illegale di armi e, negli anni Sessanta, viene condannato per omicidio. Durante quegli anni, Mesina diventa un protagonista indiscusso della cronaca nera italiana. Le sue imprese fanno scuola, rendendolo l’inevitabile oggetto di ammirazione da una parte della popolazione che cede al fascino. Sono gli anni in cui il bandito di Orgosolo, lontano dall’isola, dimostra già tutta la sua “caratura criminale” nel rapporto con le altre organizzazioni mafiose della penisola. Nel 1985, a Vigevano, è arrestato e insieme a lui anche un calabrese originario di Platì, per favoreggiamento della latitanza di Mesina, che quella volta era in “fuga d’amore”.
A fornire l’alloggio di Vigevano a Mesina era stato il ragioniere in pensione Antonino Papalia, un uomo piccolino, con i baffetti un po’ retrò e molto cortese, finito per pagare più di tutti la disponibilità al bandito sardo, che sei giorni prima si era dato alla latitanza per andare a trovare una giornalista più giovane di lui, dalla quale aveva ricevuto una lettera d’amore in carcere. Mesina non era rientrato al carcere di Porto Azzurro e venne trovato invece a letto con la giovane donna. Papalia alla fine si sparò. Non era uno incensurato, l’uomo di origine calabrese, che si dedicava solo a piccole truffe, insieme ad una piccola banda specializzata in questo settore.
Si ipotizzò che l’ospitalità a “Grazianeddu” non l’avesse data il solo Papalia, ma addirittura che attorno a Vigevano ci fosse una rete di protezione dei latitanti, che giustificherebbe anche la presenza di un milione e 700 mila lire nell’appartamento.
In un’informativa dell’Interpol di quel periodo si fa il nome di Giovanni Cotroneo, boss vigevanese della ’ndrangheta, originario di San Roberto, legato alle famiglie Buda, Imerti e Condello di Reggio Calabria come possibile “gancio” per far arrivare latitanti in zona. Quasi tutti i calabresi insediatisi a Vigevano prima o poi capitavano da Cotroneo. Ma i legami di Graziano Mesina con la mala calabrese si fecero via via sempre più stretti.
Il bandito sardo vive lontano dalla Sardegna in libertà condizionale. Interviene per la liberazione del piccolo Farouk Kassam, rapito dall’Anonima sequestri. Dopo alcuni mesi, siamo nel ’93, a causa di un ritrovamento di armi in un casale ad Asti, Mesina deve ritornare in carcere per scontare l’ergastolo. Fino alla concessione della grazia nel 2004, concessa dal presidente Ciampi, proprio per l’intercessione del bandito per la liberazione, dopo sei mesi, del piccolo sequestrato.
La vita di Graziano Mesina d’ora in poi, è un susseguirsi di carcerazioni e fughe. E in alcune operazioni ci sono sempre i calabresi. Ora legato a doppio filo con la cosca dei Morabito-Bruzzaniti di Africo, nella Locride, che forniva grossi quantitativi di droga al bandito di Orgosolo, talaltra si scoprivano stretti rapporti dell’orgolese con esponenti dei Grande Aracri, originari di Cutro ma operanti in Emilia Romagna, come Franco Riillo di Isola Capo Rizzuto o Antonino Modafferi di Reggio Calabria, considerati fornitori di ingenti quantità di droga al mercato sardo. della criminalità organizzata calabrese.
E il nome di Graziano Mesina lo aveva fatto anni addietro anche un altro calabrese, rivelandosi poi un falso. Giovanni Pantaleone Aiello, alias “Faccia di mostro”, il poliziotto originario di Montauro e morto nel 2017 sempre nel centro del catanzarese, una volta tentò di spiegare perché il suo volto era orrendamente devastato: «È il ricordo che mi hanno lasciato gli uomini della banda di Graziano Mesina. Mi hanno colpito in faccia in un conflitto a fuoco durante un sequestro di persona». Il suo ferimento sarebbe avvenuto esattamente il 25 luglio del 1967, quando Aiello era in servizio a Nuoro. Ma non era vero.
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