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CROTONE – Il pentito Luigi Bonaventura e la sua famiglia saranno presto in mezzo a una strada. Lo Stato non ha inteso rinnovare il programma di protezione al collaboratore di giustizia a causa di «interviste non autorizzate», sia a pure contratto «scaduto». Ma anche a causa del rifiuto di una presunta località protetta dovuto, a dire di Bonaventura, al fatto che là si trova un suo ex affiliato e pertanto la nuova destinazione sarebbe stata a rischio.

 Almeno questo è quello che denuncia Paola Emmolo, moglie del pentito crotonese che ha contribuito con le sue rivelazioni a far condannare boss e gregari. Si consideri che la principale vicenda giudiziaria scaturita, anche, dalle dichiarazioni del pentito (peraltro sentito dalle Procure di mezza Italia), quella condotta dal pm Pierpaolo Bruni e denominata Herakles, dopo la retata dell’aprile 2008 non è ancora conclusa perché si va verso un processo d’appello ter. Eppure Bonaventura e i suoi stanno per ritrovarsi fuori dall’egida dello Stato.

«Non si possono lasciare due bambini, due anziani genitori e altri quattro loro familiari in mezzo ad una strada, in grave pericolo, senza opportuni documenti e senza un centesimo in tasca», dice la donna al Quotidiano. «Stiamo dando l’anima per la giustizia italiana – aggiunge – Mio marito ha fornito un apporto collaborativo elevatissimo, ha fatto arrestare e condannare oltre 150 ‘ndranghetisti, ha portato nel Crotonese una vera inversione di marcia… Ha rifiutato (a buon ragione) dei trasferimenti in altra località. Ma poi alla fine ha accettato». E ancora: «non si può lasciare un importante  collaboratore e i suoi familiari per mesi e mesi sprovvisti di opportuni documenti di copertura, non si può metterlo nella stessa zona in cui vivono alcuni falsi pentiti e ‘ndranghetisti, come avete fatto a Termoli. Prima di collocarci in questa nuova sede non sarebbe stato opportuno chiedere alla polizia del luogo se questa area era compatibile con noi?».

La Emmolo denuncia, come già aveva fatto Bonaventura, che in seguito al trasferimento da Termoli, ex isola felice ormai infiltrata dalla ‘ndrangheta, la famiglia è stata collocata in una località che già era stata vietata per motivi di sicurezza e in cui si trova un ex picciotto del marito. Accuse gravi, dettate dal timore che possa ripetersi ciò che è successo in provincia di Campobasso. «Non si deve trovare (come è accaduto  a Termoli) un micidiale arsenale di ‘ndrangheta a 200 metri da casa nostra e in un magazzino riconducibile al caposcorta del collaboratore di giustizia». Alla fine, «il messaggio» per «chi ha intenzione di denunciare» è che «la storia di Lea Garofalo non ha insegnato niente». La testimone di giustizia di Petilia Policastro, prima di essere uccisa a Milano, peraltro proprio a Campobasso, nel maggio 2009, subì un tentativo di rapimento. 

Infine, l’allarme. «Dopo otto anni è cessato il pericolo per la mia famiglia? Se accadrà qualcosa ve ne assumerete la responsabilità? Quante risate si farà la ndrangheta?».

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