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LA diminuzione della natalità, fenomeno sotto i riflettori ormai da diversi decenni, sta provocando l’implosione e la trasformazione della struttura giovanile della popolazione: i giovani stanno divenendo una risorsa rara. Di contro, l’aumento continuo della sopravvivenza sta gonfiando a dismisura le classi di età più elevate. A causa di questi due fenomeni, oggi la struttura per età della popolazione italiana, la cosiddetta Piramide, ha assunto e assumerà sempre di più in futuro una forma rovesciata.

Ricordiamo che questi andamenti demografici non rappresentano una prerogativa della popolazione italiana, ma sono un tratto comune a molti paesi sviluppati. In Italia, però, questi trend si caratterizzano per la forte intensità e velocità, causando un vero e proprio intenso “inverno demografico” con conseguenze sociali ed economiche di grande impatto sul mercato del lavoro e sul sistema pensionistico, per citarne solo due.

Recentemente la Cgia di Mestre in un Report dei primi giorni di settembre ha evidenziato, sulla base degli ultimi dati Istat disponibili, gli effetti della natalità sulle età giovanili, e in particolare nella fascia tra i 15 e i 34 anni, che è il segmento in procinto di entrare nel mercato del lavoro o che vi è entrato da poco, evidenziandone il calo nell’ultimo decennio e rimarcando i decrementi differenziali a livello regionale e provinciale.

Per l’autorevolezza della fonte, quest’analisi ha avuto una vasta eco nei media, con considerazioni e prese di posizione e proposte a volte estemporanee da parte di commentatori politici: per esempio in un commento sui dati della Cgia per la regione Calabria è stato affermato che la realizzazione del ponte dello Stretto, generando una forte occupazione, avrebbe potuto creare le condizioni per risolvere il problema della natalità; altri ancora hanno invocato i sindaci ad attivare interventi per favorire l’aumento delle nascite.

Commenti che denotano una scarsa conoscenza dell’impatto delle dinamiche demografiche sulla società mentre, come l’esperienza della storia sociale passata e più recente del nostro e di altri Paesi insegna, far nascere più figli in un Paese, e nel nostro in particolare, richiede una politica demografica a livello nazionale razionale e molto pervasiva, di non facile implementazione, con corposi investimenti finanziari di lungo periodo che vadano a incidere in modo profondo sulla vita delle famiglie, in modo da creare un clima favorevole verso una prole più numerosa; che sappia trasformare l’immigrazione da problema a risorsa strategica. Politica demografica fino ad oggi del tutto assente, a parte alcuni interventi che sono semplici “ristori” alle famiglie che hanno già dei figli.

Dai dati del Report della Cgia si coglie che le regioni del Mezzogiorno occupano negli ultimi dieci anni le prime posizioni nella graduatoria delle regioni italiane per diminuzione della popolazione giovanile (15-34 anni), con riduzioni che vanno da -19,9% della Sardegna a -12,7% della Campania, a fronte di un calo medio dell’Italia di -7,4% (Tav.1). Ricordiamo che, sempre nello stesso periodo, il calo nelle altre ripartizioni italiane è stato molto contenuto: Nord- Ovest -1,0%; Nord-Est -0,5%; Centro -6,6%.
Gli effetti della denatalità sulle popolazioni giovanili del Mezzogiorno si associano a livelli di disoccupazione molto elevati.

Ricordiamo che nel 2022 i tassi di disoccupazione giovanile (15-24 anni di età) di queste regioni sono i più alti d’Italia: Sicilia 43,2%, Campania 42,6%, Calabria 34,8%, Puglia 32,0%, Molise 30,8%, Sardegna 27,4%, Basilicata 25,1%, Abruzzo 23,8%, valor medio Italia 23,7%. Questi dati, insieme con gli alti tassi di abbandono scolastico e livelli educativi bassi osservati, marcano un’area del Paese con un grave disagio sociale che sarà ancora più acuto se andrà in porto l’autonomia differenziata, che costringerà le giovani generazioni del Mezzogiorno a emigrare verso le aree più ricche del Paese, dove avranno la possibilità di trovare più facilmente un lavoro e salari più elevati. Quelli che resteranno andranno verosimilmente incontro ad una vita lavorativa precaria e frammentata, destinata a concludersi, stante il sistema pensionistico attuale del “retributivo puro”, con una pensione molto prossima a quella sociale.

Consideriamo ora succintamente il caso della Calabria. La nostra regione dal 1999 al 2021 ha conosciuto una consistente diminuzione di nascite, scese rispettivamente da 19.612 a 13.219 (-32,6%). Come conseguenza di ciò, negli ultimi dieci anni la popolazione giovanile calabrese si è ridotta del 19,0%, che è il valore negativo più elevato del Mezzogiorno dopo la Sardegna (Tav. 1). Sulla base delle previsioni Istat, ipotesi mediana, questa fascia di popolazione conoscerà una ulteriore e continua diminuzione, passando da 395.436 giovani del 2023 a 267.758 nel 2050 (-32,3%): una risorsa dunque sempre più rara ma nel contempo sempre più fragile.

Di conseguenza, anche la popolazione complessiva della Calabria è destinata a decrescere. Secondo le previsioni Istat, ipotesi mediana, nel 2030 la popolazione della Calabria dovrebbe ridursi a 1.755.756, nel 2040 a 1.646.306, nel 2050 a 1.516.652 e addirittura a 1.236.168 abitanti nel 2070.

Se poi lo sguardo si sposta alle realtà interne è facile cogliere il grave problema dello spopolamento che, pur presente in molti piccoli e isolati comuni del nostro Paese, in Calabria si connota per la pervasività e per indici di vecchiaia che superano spesso il rapporto 1 giovane per 3 e più anziani. Una regione, dunque, a rischio concreto di implosione demografica e non solo se non saranno messi in campo strategie per temperare quanto meno le forti criticità prima segnalate.


già ordinario di Demografia, Unical

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