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CROTONE – Partito dall’Afghanistan, 16 anni e poca carne. Con lui, ragazzo senza nome, sopravvissuto al naufragio di Crotone e oggi trasferito in un Centro d’accoglienza del Cosentino, soltanto la sorella. È per sfuggire alla furia dei talebani che i due decidono di superare la frontiera e costruirsi una vita nuova.

Le cose, si sa, non vanno come sperato: sorella e fratello si ritrovano in mare all’improvviso, il giovane nuota verso la spiaggia, ogni bracciata è accorciare la distanza tra sé e un futuro migliore. Ce la fa. Ma quando, una volta in salvo, si gira lei non la trova più, corpo senza vita inghiottito dallo Ionio.

Questo minore, completamente solo in una terra in cui si parla una lingua strana, diversa dalla sua, non ha ancora avuto la forza di dire la verità ai genitori, rimasti in Afghanistan e con cui poi è riuscito a mettersi in contatto. La versione che gli dà è che loro figlia è in ospedale, ma sta bene, è viva. Il pensiero magico di chi si attacca, con tutto se stesso, alla speranza.

È questa una delle storie disperate che trasferisce Sergio Di Dato, responsabile dell’intervento di Medici Senza Frontiere a Crotone. «Ci stiamo coordinando – dice Di Dato – con gli operatori della Croce Rossa Italiana, in modo da fornire supporto psicologico ai superstiti di questa strage, grazie anche ai mediatori culturali presenti.  Il nostro team – chiosa – sta cercando, in parole povere, di rendere umano qualcosa di inaccettabile».

Come, ad esempio, le operazioni di riconoscimento delle salme. «Abbiamo incontrato le 60 persone spostate subito dopo il dramma nel Cara di Isola – dice ancora Sergio di Dato -, si tratta nella maggior parte dei casi di nuclei familiari: quasi tutti hanno perso un affetto in questa traversata e ora si ritrovano a doverne effettuare, nel Palazzetto dello sport, dove sono presenti i feretri, il riconoscimento».

Tra le storie in cui l’operatore di Medici Senza Frontiere si è imbattuto c’è anche quella di un uomo, di 40 anni, e del suo bambino di 14: hanno perduto in mare rispettivamente moglie e madre, figli (di 11, 9 e 5 anni) e fratelli. Sono rimasti in due in questa famiglia che all’improvviso ha subito una separazione amara, non voluta, ingiusta. 

«Anche loro – spiega Di Dato – provenivano dall’Afghanistan, anche loro fuggivano dai talebani e da condizioni di vita inaccettabili. Si sente spesso dire – continua il responsabile dell’operazione per Msf – che i migranti abbandonino il loro Paese d’origine per questioni economiche, ma non è così: queste persone sono costrette a partire, non hanno scelta, se rimanessero a casa propria, morirebbero». Nel frattempo nel Cara di Isola Capo Rizzuto, volontari e operatori cercano, lo hanno detto, di umanizzare tutto questo immane dolore. «Noi non facciamo domande, devono essere i superstiti a voler parlare. Un fatto spontaneo – dice Sergio Di Dato -, i migranti devono sentirsi a loro agio. A ogni modo, da quanto al momento ci hanno riferito – prosegue – l’imbarcazione in legno su cui viaggiavano si è spezzata in due, provocando un rumore simile a un’esplosione e, inoltre – aggiunge -, nessuno ci ha finora detto, come qualcuno ha ipotizzato in queste ore, che siano stati gettati in mare dai presunti scafisti». Poche luci e molte ombre, insomma, su esistenze che hanno già fatto i conti con la fine.

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