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Il procuratore di Bologna, Giuseppe Amato

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Escalation di misure interdittive nella provincia di Reggio Emilia; il procuratore di Bologna, Amato: “Evidente infiltrazione” della ‘ndrangheta


CUTRO – A dare un’idea della «evidente infiltrazione» della ‘ndrangheta in Emilia Romagna è l’escalation di misure interdittive che si concentrano soprattutto nella provincia di Reggio Emilia, epicentro al Nord della cosca Grande Aracri di Cutro. Ma le interdittive sono «da maneggiare con cura». Lo ha spiegato il procuratore di Bologna, Giuseppe Amato, nel corso della sua audizione in Commissione parlamentare antimafia svoltasi nelle settimane scorse. Il resoconto integrale è finalmente disponibile e può essere riattualizzato alla luce del dibattito innescatosi in Calabria ed Emilia sul tema delle interdittive anche in seguito alla nascita dell’associazione “Contro le mafie”, composta da imprenditori esclusi da white list, che chiede alle autorità aiuto per evitare ingerenze mafiose.

Amato mette bene in luce che la presenza mafiosa in Emilia è dimostrata non solo dall’inchiesta Aemilia, sfociata nel più grande processo, per numero di imputati, mai celebrato contro le mafie al Nord, ma anche dall’intensa attività svolta dai prefetti emiliani. Ecco perché ricorda il dato delle 266 interdittive in Emilia Romagna grazie alle quali la regione si è collocata al terzo posto in Italia, subito dopo Campania e Calabria. Il procuratore ha pertanto cercato di sviluppare un «raccordo molto stretto» tra la Dda di Bologna, da una parte, e l’autorità prefettizia e il Gruppo interforze che si occupa di interdittive, dall’altra, al fine di arrivare a una «interpretazione comune».

Amato, che ritiene «indiscutibile» l’importanza delle misure interdittive, si dice certo che la misura vada «coniugata» con la «prevenzione collaborativa», che «si affianca idealmente» a strumenti di bonifica aziendale previsti dal codice antimafia come l’amministrazione giudiziaria e il controllo giudiziario. «Questo perché la elasticità e la duttilità dell’intervento da un lato garantisce nella stessa identica maniera le esigenze tipicamente prevenzionali, e dall’altro consente di superare alcune situazioni di rigidità che caratterizzano in maniera pacifica le misure interdittive antimafia, soprattutto sotto il profilo del quantum dimostrativo della condizione presupponente l’emissione della misura interdittiva, cioè il tentativo di infiltrazione, grazie alla regola del più probabile che indiscutibilmente è una regola che dal punto di vista dimostrativo è certamente molto stringente. Questo ha consentito di ottenere risultati particolarmente utili e significativi».

Amato, insediatosi dopo l’inchiesta Aemilia, ricorda alcuni «punti fermi» messi in chiaro dalla maxi sentenza, a cominciare dalla «ormai acclarata dimostrazione del concetto della mafia delocalizzata» e della sua «autonomia» rispetto alla casa madre. «Un caposaldo del contrasto giudiziario». La casa madre è Cutro, nel caso del processo Aemilia. Ma altro punto fermo è dato dalla sentenza della Cassazione che sancisce «un cambiamento della modalità di presentazione della associazione criminale». Si è passati, cioè, «dalla mafia militare a una mafia lato sensu economica». I reati fine non sono più l’usura e l’estorsione ma reati fiscali come la bancarotta strumentale e l’interposizione fittizia. «Non è un’infiltrazione che vuole farsi vedere e manifestarsi come una sorta di controllo militare del territorio», spiega il capo della Dda di Bologna.

Amato cita la Cassazione che, tracciando un parallelo tra la maxi sentenza Aemilia e l’arresto di Matteo Messina Denaro, si sofferma sul commento del procuratore di Palermo, Maruzio De Lucia, sulla “borghesia mafiosa”. «Di fronte a reati che non sono tipicamente militari, ma sono reati che richiedono una professionalità specifica, emerge il coinvolgimento di soggetti che non sono tipicamente inseriti nella struttura associativa, ma che diventano necessari per il perseguimento di questi risultati. Quando parliamo di un’operazione di cartiere e di fatture false, di costruzione di società di comodo che devono essere fatte volontariamente fallire per ottenere certi risultati, quando dobbiamo parlare di interposizione fittizia di beni, ovviamente servono i professionisti».

Il processo Aemilia ha fatto da «capofila» a tutta una serie di rivoli investigativi poi confluiti in altri processi – Amato cita Perseverance e Grimilde – che hanno approfondito aspetti che erano rimasti inesplorati e hanno portato anche all’applicazione di misure di contrasto di natura economica, come la “confisca di sproporzione” o “allargata”, affiancata, «quando ce ne fossero stati i presupposti», a misure di prevenzione. «Sulle misure di prevenzione – dice Amato nella sua audizione – ho ritenuto di dovere adottare una serie di indicazioni stringenti circa la metodica: sono uno strumento estremamente utile, ma da maneggiare con cura sia sotto il profilo del compendio indiziario necessario, per dimostrare la pericolosità soggettiva e anche la pericolosità oggettiva dei beni, sia dal punto di vista del necessario apprezzamento della distanza maggiore o minore dell’acquisto del bene rispetto al momento di accertamento della pericolosità».

Il riferimento è al tentativo di rendere compatibile l’azione preventiva, perseguita col necessario rigore, con i principi espressi dalla Cedu e dalla Carta fondamentale dell’Ue valorizzando strumenti previsti dal codice antimafia come «l’amministrazione giudiziaria e il controllo giudiziario, che sono il pendant rispetto a quella prevenzione collaborativa che ha a disposizione il prefetto». «Uno strumentario che consente di ottenere lo stesso risultato – spiega ancora Amato – ma nello stesso tempo di non estromettere, quando non ci sono la necessità e quando non ci sono le condizioni, un compendio magari imprenditoriale al mercato, ma di fare in modo che quel compendio possa proseguire sotto la gestione e il controllo dell’amministratore nominato dal Tribunale ai fini dell’integrale superamento della condizione di difficoltà derivante dalla contiguità con l’associazione criminale».

Il necessario «rigore», precisa Amato, «salvaguarda la bontà dell’utilizzo dello strumento» di prevenzione. Il procuratore in tal senso fa riferimento al pentimento farsa del boss Nicolino Grande Aracri, ritenuto non credibile anche quando ha sminuito i patrimoni attualmente riconducibili alla super associazione mafiosa da lui capeggiata. «L’ufficio, anche condividendo queste conclusioni con la Procura nazionale antimafia, non ha inteso accedere a una proposta di collaborazione che era parsa scarsamente attendibile e soprattutto non qualificata dalla rappresentazione reale della situazione della associazione che si andava a investigare e soprattutto non era reale rispetto ai beni che ritenevamo che la associazione avesse nella propria disponibilità».
In questo contesto, la Dda di Bologna ha inteso promuovere e condividere «tutta una serie di protocolli che in questi mesi, soprattutto in coincidenza con il Pnrr, sono stati messi in piedi con la partecipazione non solo degli attori pubblici, ma delle associazioni imprenditoriali e di categoria, e dei sindacati». L’obiettivo è perseguire «tutte le soluzioni a favore della legalità» e «intercettare in una fase preliminare tutto quello che in ipotesi può trasformarsi in qualcosa di penalmente significativo e meritevole di attenzione da parte delle forze di polizia e conseguentemente da parte della magistratura».

Nicolino Grande Aracri resta, dunque, il vertice indiscusso della cosca che da Cutro si è proiettata in Nord Italia e ha colonizzato l’Emilia. Il suo tentativo di collaborazione con la giustizia si è rivelato non attendibile poiché dietro c’era il progetto di salvare i più stretti congiunti da nuove indagini e nuovi processi e di alterare dati processuali cristallizzati con sentenze definitive. Ma il principio di collaborazione non ha scalfito il peso specifico a lui attribuito all’interno dell’organizzazione criminale. Ecco perché il boss resta detenuto col regime carcerario duro.
Sollecitato dalla Commissione sul pentimento farsa, Amato ha detto che «questo fatto non ha rappresentato di per sé stesso un elemento destruente la sua personalità e la sua pericolosità, tanto è vero che rinnoviamo sempre di volta in volta il mantenimento del 41-bis, per cui siamo sempre consapevoli che il ruolo sia stato mantenuto». «Siamo stati molto attenti e abbiamo appunto percepito che si trattava di una collaborazione che non aveva ragione di essere», ha aggiunto il capo della Dda di Bologna. L’influenza criminale del boss di Cutro persiste ancora.

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