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Vincenza Ribecco

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CUTRO (CROTONE) – «La parola chiave è vergogna. Ci vergogniamo di dire che siamo dei Diletto, di scrivere il nostro nome abbinato a questo cognome. Il cognome di una persona deriva dal fatto di avere lo stesso sangue, quindi lo stesso cuore, lo stesso carattere, ma io e mio fratello non abbiamo nulla in comune con nostro padre e tutto ciò che siamo lo dobbiamo soltanto a mia madre». A parlare è Rosaria, figlia di Vincenza Ribecco, la 61enne uccisa il pomeriggio dell’8 marzo scorso dall’ex marito Alfonso Diletto, fermato nell’immediatezza dei fatti dai carabinieri.

Rosaria e il fratello Domenico – al quale toccò fare la triste scoperta al rientro a casa, quel tragico pomeriggio, tanto che gli caddero sul pavimento le mimose che aveva comprato per sua madre – hanno dato mandato all’avvocato Anna Maria Critelli perché faccia istanza per il cambio del cognome.

L’istanza è stata inoltrata al prefetto di Mantova, poiché i ragazzi sono nati a Suzzara. Nel piccolo borgo che si affaccia su quel golfo incantevole, un mese fa, si è consumata una tragedia di proporzioni immani, proprio nel giorno in cui si dovrebbe riflettere sui diritti delle donne.

«Quel giorno non è morta soltanto nostra madre, siamo morti anche noi», dice Rosaria al Quotidiano. Non è un caso che sui manifesti funebri i due fratelli abbiano deciso di far pubblicare soltanto i loro nomi di battesimo. «Che non si dica che aveva due figli e una nipote, che il suo cognome non vada avanti, che mio fratello non sia costretto a dare lo stesso cognome ai suoi figli, che tutti sappiano che siamo figli ad un’unica persona, nostra madre», aggiunge Rosaria. È una scelta netta, per dissociarsi profondamente da un uomo che ritengono soltanto colui che «ha ucciso nostra madre e che ci ha tormentati per anni».

Dall’indagine lampo dei carabinieri è, del resto, emerso un quadro di vessazioni a cui Diletto avrebbe sottoposto moglie e figli. Di «clima di terrore» parlava, infatti, il gip del Tribunale di Crotone Michele Ciociola analizzando il fermo eseguito dai carabinieri della Sezione operativa della Compagnia di Crotone. I timori della vittima erano risaputi dai suoi parenti e da tutta la piccola comunità di San Leonardo.

La dottoressa Giovanna Vitaliano, medico curante, ai carabinieri riferì che “Cecè”, come veniva chiamata la vittima, le aveva confidato che era «di dominio pubblico» la persecuzione da parte del suo ex marito. Eppure la donna non lo denunciò e ritirò la proposta di ammonimento che era stata avanzata al questore di Crotone. Diletto così poté presentarsi indisturbato il pomeriggio dell’8 marzo con in tasca una pistola calibro 7.65 illegalmente detenuta con cui sparò dalla porta-finestra all’ingresso dell’abitazione un colpo che trapassò il vetro e raggiunse al cuore la vittima. Ma forse il sacrificio della povera donna servirà a qualcosa.

A due passi dal luogo della tragedia, il Comune di Cutro vuole realizzare un centro antiviolenza all’interno di un bene confiscato, ben 25 anni fa, al clan Mannolo, per il quale ha chiesto 2,5 milioni di euro nell’ambito del Pnrr.

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