X
<
>

La "copiata" con l'organizzazione della 'ndrangheta a Crotone

Condividi:
4 minuti per la lettura

CROTONE – Nonostante a casa sua fosse stata rinvenuta la “copiata”, un manoscritto riportante “doti” e “incarichi” di ‘ndrangheta, in Appello è stato assolto dall’accusa di associazione mafiosa. Andrea Laforgia, il 50enne arrestato, nel dicembre 2016, appunto per associazione mafiosa oltre che per il possesso di tre etti di cocaina più gli arnesi necessari per il confezionamento della droga e ben tre pistole, alla fine è stato condannato, a 8 anni e 4 mesi di reclusione, soltanto per droga e armi.

Nell’agosto scorso era stato condannato dal gup distrettuale di Catanzaro a otto anni e otto mesi anche per associazione mafiosa. I suoi difensori, gli avvocati Roberto Coscia e Aldo Truncè, hanno sostenuto che andava dimostrata l’appartenenza a un gruppo criminale ben definito e stabilmente incardinato, che si trattava di un’imputazione anomala e che non si poteva ritenere fondata l’intraneità a un sodalizio ‘ndranghetistico per tabulas, come affermava la pubblica accusa, che, rappresentata in aula dal procuratore generale Salvatore Di Maio, aveva chiesto la conferma della sentenza di primo grado.

La “copiata” era balzata all’attenzione delle cronache perché, secondo la ricostruzione della Dda di Catanzaro e della Squadra Mobile della Questura di Crotone che nel giugno 2018 condussero l’operazione Hermes contro il clan Barilari Foschini, era tra gli elementi in grado di dimostrare l’esistenza della ‘ndrina e i rapporti con esponenti di altre famiglie mafiose.

Si tratta di un prezioso appunto in cui erano riportati i nomi di personaggi apicali nelle famiglie di ‘ndrangheta del circondario. E nel febbraio scorso il foglio con la nomenclatura di mezza ‘ndrangheta crotonese era alla base dell’operazione Orso, scaturita da un’altra inchiesta che nasceva appunto dal rinvenimento del manoscritto scovato durante una perquisizione a casa di La Forgia, che già aveva consentito di “’incastrare”, tra gli altri, il presunto “capo giovane”, Francesco Monti, nipote dello storico boss di Papanice condannato, invece, a dieci anni.

Dentro una scatola metallica chiusa con un lucchetto, oltre a 15 grammi di hashish, Andrea La Forgia nascondeva anche un foglietto riportante nomi con a fianco il grado ricoperto nella ‘ndrangheta. Picciotto, camorrista, sgarro, santa, vangelo: la “copiata” viene, infatti, utilizzata nei rituali di affiliazione (anche se i custodi delle regole la mandano giù a memoria), e altro non è che un elenco dei gradi della “società minore” e della “società maggiore”.

E’ la gerarchia ‘ndranghetistica, come affermato da vari pentiti ed accertato in una molteplicità di processi. Spiccavano pezzi da novanta della criminalità organizzata del Crotonese, come Giuseppe Spagnolo o Salvatore Morrone, tra i plenipotenziari del “locale” di Cirò, Salvatore Giglio, capo della ‘ndrina di Strongoli, Domenico Megna, capo bastone di Papanice. Tutta gente pluricondannata per associazione mafiosa. Ma eccolo, l’elenco dei nomi da portare in “copiata”.

Al primo grado, quello di “picciotto”: Gaetano Ciampà (indicato come reggente della cosca Vrenna Bonaventura Ciampà Megna), Annibale Barilari, contabile, Francesco Monti, capo giovane, Enzo Frandina, puntaiolo, Tonio De Biasi, mastro di giornata. Secondo grado, “camorrista”: e rispuntano Ciampà e Barilari, ma ci sono Fabio Iannice, “tirata”, Alfonzo Carvelli, “favorevole”, Orlando Genovese, “sfavorevole”. Terzo grado, “sgarro”: Gaetano Ciampà, Mico Megna, Giuseppe Bandito (soprannome di Spagnolo, ndr). Quarto grado, “santa”: Gaetano Ciampà, Salvatore Morrone, Salvatore Giglio. Quinto, “vangelo”: Gaetano Ciampà, Vincenzo Combariati, Francesco Gentile.

La sbadataggine di lasciare a casa un manoscritto che avrebbe dovuto essere utilizzato durante un rito di affiliazione stava per scatenare una “guerra”, come emerge dalle intercettazioni in carcere subito dopo l’arresto di Andrea La Forgia. I colloqui documenterebbero le preoccupazioni di La Forgia circa le reazioni all’esterno del carcere, negli ambienti criminali, una volta diffusasi la notizia del sequestro del foglio. La Forgia, per esempio, chiedeva alla compagna convivente quali fossero stati i commenti: «di questo foglio che hanno detto?», giustificandosi dicendo di essersi già disfatto di un altro foglio: «lo avevo buttato io! Ti giuro lo avevo buttato uno».

La compagna redarguisce il detenuto dicendogli di non parlare dell’argomento in quella sede, evidentemente temendo che il colloquio venisse monitorato. Ma, noncurante dell’avvertenza, La Forgia tornava sull’argomento, mentre parlava con il fratello Gianluca, scusandosi dell’errore commesso, affermando che si era trattato di una dimenticanza e non di una “infamità”, ossia di un tradimento nei confronti di qualcuno.

«Va bene! Me lo hanno trovato…quello è stato un errore mio…chiedo scusa alle persone…non fa niente! Ma quello vuole trovare…per attaccare…perché è una stupidata…la copia che la dovevo buttare e me la sono dimenticata là! Questa è una leggerezza mia e ne pago le conseguenze! Giusto o no? Ma non penso che ho fatto infamità? Infamità ancora non ne ho fatto a nessuna parte».

Condividi:

COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA

EDICOLA DIGITALE