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Nicolino Grande Aracri

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CUTRO (CROTONE) – Un cadavere trasportato all’insaputa dal fratello del boss. Quando il boss Nicolino Grande Aracri, presunto – ora più che mai – collaboratore di giustizia, ha tentato di salvare il fratello Ernesto dal coinvolgimento nell’uccisione di Antonio Macrì, un caso di lupara bianca dell’aprile 2000, il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, è saltato sulla sedia.

«E le sembra logico che delle persone si permettano solo a pensare di creare, di coinvolgere il fratello del “padrino” nel trasporto di un cadavere e senza che poi succedesse niente? Cioè, nella logica di ndrangheta, lei il giorno dopo, tutte quelle persone che hanno – stando al suo racconto – inconsapevolmente fatto trasportare il cadavere a suo fratello, li avrebbe dovuti squagliare come il sapone! Lei cosa ha fatto dopo questo, stando al suo racconto? Perché io non credo a questa cosa che lei sta dicendo, che suo fratello non sapeva che stava trasportando un cadavere non ci credo».

Grande Aracri prova a obiettare. «Sì, ho capito, dottò. Però se a mio fratello gli dicevano che c’era il cadavere, sicuramente mio fratello: “aspetta nu pocu ca mo prima c’u dicìmu a mio fratello”». E Gratteri: «Ma lei pensa che nella loro organizzazione mancava un trattorista con il carrello, con il letame per portare il cadavere?».

L’incredibilità delle dichiarazioni del super boss a quel punto si è offerta «in maniera oltremodo chiara», osservano i magistrati della Dda nella relazione di inattendibilità che accompagna le prime “cantate”, che si configurebbero come «un paravento per i propri familiari e sodali più stretti». Sotto la lente una serie di omicidi oggetto dei processi Scacco Matto e Kyterion per cui Grande Aracri è stato condannato in via definitiva all’ergastolo. Per cinque su sette dei fatti di sangue contestati in Scacco Matto la sentenza è scattata proprio nelle settimane scorse e non è un caso che l’accusa non abbia inteso versare agli atti del processo dichiarazioni a quanto pare fuorvianti sulla faida fra le famiglie Dragone e Grande Aracri. «Generiche, illogiche e fantasiose», dicono i pm Antimafia, per i quali il boss tende a sminuire la effettiva sussistenza di una vera e propria guerra intrapresa dal suo gruppo per scalzare il clan prima dominante.

Nel far ciò, Grande Aracri introduce un «inedito storico mai riscontrato»: produce, cioè, dichiarazioni eteroaccusatorie, rispetto all’ideazione degli omicidi e alla materiale perpetrazione dell’uccisione di Raffaele Dragone e, successivamente del padre, il vecchio boss Antonio Dragone, nei confronti, tra gli altri, dei componenti della famiglia Capicchiano (senza indicare nemmeno con precisione gli effettivi componenti dei gruppi di fuoco). Inoltre, il falso pentito nega, o mostra di non sapere, rispetto all’omicidio di Antonio Dragone, che vi abbiano preso parte il fratello Ernesto o altri già condannati per il delitto, trincerandosi dietro il suo perdurante stato di detenzione.

Quanto al coinvolgimento del genero Giovanni Abramo, Grande Aracri afferma che sarebbe stato taciuto al fratello Ernesto, capo libero del suo gruppo di ‘ndrangheta all’epoca dei fatti. Non risulta agli inquirenti nemmeno che rispetto agli omicidi di Antonio Macrì e Salvatore Arabia (agosto 2003) non abbiano preso parte Vito Martino e Ernesto Grande Aracri, storici componenti del gruppo di fuoco, e addirittura il padrino nega che i delitti siano stati commessi dalla sua cosca, ciò in aperto contrasto con le sentenze, già passate in giudicato, che hanno condannato proprio Martino, tra gli altri, per il precedente attentato alla vita di Arabia.

Per quanto concerne il delitto Macrì, secondo i pm «in spregio a quanto ricostruito nelle sentenze», il boss lo addebita a Gaetano Ciampà e Salvatore Arabia, entrambi morti ammazzati negli anni di piombo, introducendo anche «elementi distonici e francamente incredibili» perché i due erano uomini del boss Dragone. Ma il clou Grande Aracri lo raggiunge quando sostiene che suo fratello Ernesto avrebbe trasportato personalmente il cadavere di Macrì su un camion «incredibilmente inconsapevole della sua presenza nel carrellone».

Per ciò che concerne l’omicidio di Franco Arena, assassinato nella strage al bar di Isola Capo Rizzuto dell’annus horribilis 2000, il boss non solo nega di aver avuto in quel periodo contrasti con la cosca Arena ma poi afferma che il delitto, perpetrato anche da Salvatore Nicoscia, anche lui condannato all’ergastolo, sarebbe il frutto di «una rapina andata a male», ciò che stride con le ricostruzioni della sentenza, passata recentemente in giudicato. La reticenza del boss viene fuori anche dal suo narrato su altri due omicidi importanti da inquadrare nelle varie faide intercorse nel Crotonese. Circa l’omicidio di Rosario Ruggero, assassinato a Cutro nel ’92, per il quale nel processo d’appello bis il padrino è stato condannato quale mandante a 30 anni di carcere, il padrino offre «una ricostruzione, guarda caso, diametralmente opposta e foriera di conseguenze benevole per i suoi complici», o presunti tali, ovvero Giuseppe Grano, assolto in Appello, e Lino Greco, per cui si procede a parte. Quanto, invece, all’omicidio di Pasquale Nicoscia, commesso a Isola Capo Rizzuto, il boss sostiene che a commetterlo sarebbe stato Fabrizio Arena.

«Appare però strano che il capo provincia crotonese nulla sappia riferire in aggiunta ai dati processuali già acclarati dalle sentenze irrevocabili», osservano gli inquirenti. Ecco la perplessità del pm Domenico Guarascio, titolare di una serie di inchieste con cui ha lavorato ai fianchi le cosche del Crotonese negli ultimi anni, e in particolare dominus dell’inchiesta Kyterion gemella di Aemilia, e pietra miliare, insieme a Scacco Matto, nella storia della ‘ndrangheta cutrese. «Siamo costretti a trattarla come una fonte privilegiata, perché lei non è il picciotto, lo sgarrista, che può non sapere certe dinamiche omicidiarie in maniera approfondita. Essendo lei il capo che gli danno sto mandato enorme, addirittura di affrancarsi in maniera». Lui si schermisce dicendo che non intendeva manco diventare capo crimine da grande. «Che io non volevo pure, hanno fatto questa votazione e me l’hanno dato».

A quel punto il procuratore Nicola Gratteri, il capo della Dda di Catanzaro, il magistrato più famoso d’Italia, uno dei massimi esperti di mafie al mondo, salta letteralmente dalla sedia. «Qua non possiamo andare avanti su ogni episodio, su ogni episodio stiamo facendo un processo. Noi, quando un killer, un estorsore, un usuraio, diventa collaboratore di giustizia, si mette a parlare per una settimana e con tremila dettagli»

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