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Nicolino Grande Aracri

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CROTONE – «“Sono Nicola Grande Aracri”. Si presentò così. Mi disse che voleva parlare con me in una zona appartata ma io ero nel bar del villaggio e gli risposi che poteva accomodarsi e parlare là. Allora si sedette e poggiò una scatola nera sul tavolo dicendo che era un apparecchio per inibire le intercettazioni».

Nel villaggio turistico Porto Kaleo, l’uomo che la Dna ritiene a capo di una nuova provincia di ‘ndrangheta con radicamento a Cutro e dominante sui circondari di Crotone, Cosenza, Catanzaro e Lamezia, se ne andava in giro con uno scanner che si metteva dietro le spalle.

Per questo non aveva timore di essere intercettato e l’avrebbe fatto presente, nell’agosto 2012, quando, accompagnato da alcune persone che si occupavano della sua sicurezza, incontrò a Porto Kaleo Carla Rettura, madre del titolare della struttura turistica, l’imprenditore lametino Giovanni Notarianni.

«Mi chiese chiarimenti su 1,5 milioni che diede nel ’99 a Gianfranco Barberio, con cui ebbi un rapporto affettivo poi interrotto», ha detto la teste in aula, davanti al Tribunale penale di Crotone, rispondendo alle domande degli avvocati Francesco Catanzaro e Nicola Tavano, difensori del cardiologo Alfonso Sestito, imputato di associazione mafiosa.

Soldi che a dire del boss sarebbero stati investiti nella Divermar, società che costruì il villaggio, di cui in passato la donna era stata procuratrice legale, anche se lei rispose che “l’operazione non era mai avvenuta” e che il suo interlocutore avrebbe potuto riferire a suo fratello Domenico Grande Aracri, legale di Barberio, di ricorrere eventualmente nelle aule giudiziarie.

«Senza che tuo figlio si rivolge alla magistratura perché se no il bene non se lo gode nessuno». Questa, come ha ricordato la teste – «la seduta si concluse così», ha detto ieri in aula – la minaccia costata al boss l’arresto per tentata estorsione con l’aggravante mafiosa, anche se Grande Aracri, in primo grado condannato ma per minacce, fu assolto in Appello e la sua posizione non fu manco impugnata dalla Procura generale di Catanzaro.

«Turbata», la donna decise, insieme al figlio, di parlarne con Angelo Morabito, super poliziotto lametino che allora era capo della Squadra Mobile di Caserta ma conosceva bene il territorio essendo stato per molti anni anche il capo della Mobile crotonese (oggi è un pezzo grosso della Dia nazionale).

Morabito inviò una relazione alla Dda di Catanzaro che delegò le indagini ai carabinieri. «Non mi fidavo del territorio, perché tutto quello che accadeva a Porto Kaleo si veniva a sapere», ha detto ancora la donna ripercorrendo un calvario fatto di tangenti e danneggiamenti (ha ricordato gli incendi del ristorante e di un’ala dell’albergo).

«Nel 2012 arriva questo signore e io mi chiedevo da dove potessero venire quelle azioni». Quel “signore” di cui dai giornali aveva saputo che era un noto boss. «Mi disse che aveva l’obbligo di soggiorno a Cutro essendo sorvegliato speciale e che nel territorio poteva muoversi liberamente. Non fu una visita di cortesia». Per i giudici non fu minaccia né, tantomeno, tentata estorsione.

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