X
<
>

Condividi:
5 minuti per la lettura

CUTRO (KR) – «Io sono il capo, sai che nella vita devo fare il capo io? O il capo o niente… sono preparato e sono bello… Ho avuto un maestro anche in mio padre, abbiamo fatto un Bed and Breakfast a Cuba che lo gestisce lui».

Si sentiva un predestinato, l’architetto 37enne Giuseppe Todaro, nipote del boss ucciso nel maggio 2004 a Cutro, l’ex capo bastone Antonio Dragone. Rup dei Comuni consorziati del Mantovano per i lavori post sisma del 2012, a colloquio con un’amica, ignaro di essere intercettato, raccontava il sistema di cui sarebbe stato il baricentro, fatto di sviamento della propria attività istituzionale per favorire l’impresa di cui era titolare occulto il padre Raffaele. Il genero del vecchio boss.

«Adesso che abbiamo preso dei gran bei lavori… noi da cinque anni non siamo stati fermi un giorno, che i lavori li ho portati io ma me li devi seguire tu sennò o non porto un c…. a casa… poi ho portato a casa un lavoro nel Mantovano». Così narrava le gesta del padre, il giovane architetto, ma le ingenti liquidità sarebbero state veicolate tramite i favoritismi del pubblico ufficiale alla ditta di famiglia, la Bondeno srl.

Profitti che sarebbero stati reimpiegati nella gestione dell’attività a Cuba ma anche per l’acquisito di immobili a Reggiolo e Steccato di Cutro oltre che per la «possibile acquisizione», è detto nelle carte dell’inchiesta della Dda di Brescia, di locali commerciali in Germani. «Facendo tanti imbrogli ho fatto la vita, ho speso, ma ho messo 150mila euro da parte».

C’è anche un’intercettazione in cui padre e figlio, nell’ufficio dell’architetto, contabilizzano i proventi illeciti già passati attraverso una “ripulitura” tramite la fittizia intestazione della Bondeno e la reimmissione nel circuito lecito attraverso investimenti immobiliari. «Eh, ma dobbiamo investire, il 30 per cento, hai capito che abbiamo l’interdittiva?». Aveva le idee chiare, il 37enne libero professionista che dal 2014 ha ricoperto in maniera continuativa l’incarico di tecnico esterno presso cinque Comuni colpiti dal terremoto.

Contestualmente ha svolto attività nel settore privato, gestendo imprese riconducibili al proprio nucleo familiare, essendo stato dipendente di Giada srl, società di proprietà dello zio Francesco e amministrata dal padre, e del consorzio Primavera, di cui Raffaele Todaro è liquidatore. Dal 2013 è stato anche socio accomandante di Immobiliare Raffaella sas, impresa della quale è socia accomandataria la sorella Maria Teresa e che tra i soci ha il sorvegliato speciale Alfonso Bonaccio e Raffaella Migale rappresentata dal figlio Francesco Todaro. Infine, è amministratore unico della Gmc immobiliare srl di Reggiolo. Tutte società alle quali è stata negata l’iscrizione nella white list dal prefetto di Reggio Emilia per legami con la ‘ndrangheta. Legami innanzitutto parentali.

L’architetto, oltre ad avere un “nonno mafioso”, come diceva nelle intercettazioni, secondo l’accusa per intimidire le vittime, ha tre cugini condannati per mafia e per l’omicidio di Salvatore Blasco, ordinato dal boss Dragone ai suoi nipoti nel 2004 nell’ambito della guerra contro la cosca Grande Aracri. Raffaele Todaro, del resto, ha sposato Caterina Dragone, figlia del boss, con la quale ha convissuto fino a dieci anni fa anche se i rapporti con la “famiglia” sarebbero ancora attuali in quanto l’uomo avrebbe continuato a finanziare i carcerati dei quali avrebbe curato gli “affari” fuori dal penitenziario. I legami tra l’uomo e il vecchio capobastone già  in passato si sarebbero concretizzati sotto il profilo del sostegno economico ma anche nel ruolo cruciale svolto durante la detenzione del boss, poiché, come emerge dall’inchiesta Scacco Matto, avrebbe girato ai sodali le direttive di Dragone dopo aver partecipato a colloqui nel penitenziario di Sollicciano insieme alla moglie. Direttive volte alla riorganizzazione del clan anche mediante la perpetrazione di omicidi.

Ma, soprattutto, sempre secondo gli inquirenti, Todaro avrebbe svolto la funzione di longa manus di Dragone nella gestione di un gruppo di imprese edili di origine cutrese e operanti nel Reggiano al fine di ottenere appalti da enti pubblici e privati con ribassi notevoli grazie al subappalto a imprese fantasma o cartiere utilizzate per l’emissione di fatture per operazioni inesistenti, il tutto con la complicità di alcuni commercialisti cutresi. Tutti elementi che inducono la Dda di Brescia e il gip Andrea Gaboardi a riconoscere l’aggravante mafiosa ai reati contestati nell’ambito della nuova inchiesta.

Il pentito Antonio Valerio, del resto, ha definito Todaro come “personaggio importante e forte” della famiglia Dragone, nel corso del processo Aemilia, mentre dalle carte dell’inchiesta “Pesci”, che fece luce su una costola mantovana dei clan cutresi, emergerebbe che era dedito a prestiti usurari in virtù delle ingenti liquidità nella sua disponibilità. Non per nulla dalle carte di quelle inchieste spunta anche un progetto per eliminare Raffaele Todaro, ordito dalla cosca rivale e non andato a segno per un caso fortuito. In linea con gli “insegnamenti” del padre, come verrebbe fuori dalle nuove intercettazioni, Giuseppe Todaro, spalleggiato da Raffaele che chiedeva se stavano pestando i piedi a qualcuno, rispondeva: «hanno abbassato le orecchie, prendetevi ‘sto bell’insegnamento».

Non a caso gli inquirenti parlano di «posizione di preminenza e autorevolezza identitaria mafiosa dei Todaro» che sarebbero accresciute grazie ai presunti accordi di cartello. «Il lotto 10 deve essere mio, io una volta che dico che interessa a me di solito non partecipano perché c’è una sorta di rispetto tra noi, se lo diciamo prima non parteciperà nessuno». A fronte delle preoccupazioni espresse da un bancario reggiano, coinvolto nella presunta cricca contigua al clan capeggiata dai Todaro, il nipote del boss rassicura: «finché ci sono io non te li farà nessuno i dispetti».

Si sentiva un predestinato, il rampollo del clan. «Qua a Reggiolo ci conosciamo, con me fan ben poco, fidati, sanno che sono pericoloso». C’era anche la giustificazione dei taglieggiamenti imposti dal nonno: «servono per la famiglia, per mantenerci». Infine, scatti di mal riposto orgoglio mafioso. «A Cutro mi vedono come un eroe… ricco… tutto per la storia di mio nonno». E il padre si compiace e lo definisce “cavallo di razza”. Adesso sono entrambi in carcere.

Condividi:

COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA

EDICOLA DIGITALE