X
<
>

Un’udienza del maxi processo “Stige”

Condividi:
3 minuti per la lettura
Gaetano Aloe

CIRÒ MARINA – «Mio padre ha creato la ‘ndrangheta a Cirò e io la distruggerò». Parola di Gaetano Aloe, il nuovo collaboratore di giustizia al vaglio della Dda di Catanzaro. Figlio di Nicodemo detto “Nik”, ucciso nel 1987 in un agguato spartiacque perché da allora assunsero il comando i fratelli Giuseppe e Silvio Farao e Cataldo Marincola, è lui a chiamare in redazione dopo aver letto la notizia esclusiva del suo pentimento pubblicata dal Quotidiano.

«Ho fatto questa scelta per tutelare la mia famiglia – spiega – io e i miei fratelli siamo cresciuti in un ambiente particolare, eravamo piccoli quando è stato ucciso il nostro papà, abbiamo vissuto in un incubo. Per questo – dice ancora – mi sono dovuto avvicinare a persone che hanno ammazzato mio padre. Ma alla fine mi sono vendicato e ho raggiunto lo scopo della mia vita».

Parole che pesano come macigni. E quando gli si chiede in che consiste la “vendetta”, è lui stesso a incalzare: «ho ucciso Vincenzo Pirillo con una calibro 38, c’era anche un mio compagno che ha sparato all’impazzata, ho fatto il nome alla Procura». Sono due, per ora, i processi in corso sull’uccisione di Pirillo, freddato mentre cenava con la sua famiglia nell’affollatissimo ristorante l’Ekò, la sera del 5 agosto 2007 a Cirò Marina, da un commando composto, secondo l’accusa, da cinque persone che ferì, tra gli altri, una bambina che la vittima designata teneva sulle gambe. Il processo col rito ordinario a carico di Cataldo Marincola e Silvio Farao e quello col rito abbreviato per Giuseppe Spagnolo e il boss indiscusso Giuseppe Farao (quest’ultimo volge al termine; il pm Antimafia Domenico Guarascio ha chiesto due condanne all’ergastolo).

Sotto accusa i leader storici della cosca e uno dei loro plenipotenziari come Spagnolo, cognato di Aloe, che non a caso viene chiamato in causa da due pentiti come esecutore materiale perché Pirillo negli ambienti criminali era indicato come l’uccisore del padre. Proprio Aloe potrebbe fornire i tasselli mancanti al già corposo materiale probatorio.

Ma perché si è pentito? «Non sono mai stato in pace, il primo reato lo commisi quando avevo dieci anni appena, sparai contro un muro e il proiettile rimbalzò e mi feci pure male – dice ancora al Quotidiano – Ma sono anche consapevole che non si cambia da un giorno all’altro. Devo cambiare mentalità. Non mi piace essere aggressivo. Voglio essere – dice rivolgendosi al cronista – una persona tranquilla come lei». 

Aloe ha voglia di parlare. Ed è evidente che sta già contribuendo a delineare gli scenari della ‘ndrangheta cirotana e non solo, che dal suo osservatorio avrà avuto modo di conoscere bene. Condannato anche in appello, a 13 anni e 4 mesi di reclusione, per associazione mafiosa e intestazione fittizia nel processo Stige, era uno degli imputati che era stato rimesso in libertà dopo aver espiato, in parte, la pena. Ma uno come lui potrebbe fornire informazioni preziose al pm Antimafia Domenico Guarascio e ai carabinieri del Reparto operativo di Crotone, che stanno esaminando le sue primissime rivelazioni.

«La ‘ndrangheta, dopo la morte di mio papà e dopo che non c’è più chi ci dev’essere (probabile riferimento ai capi della super cosca cirotana in stato detentivo, ndr), è finita, a Cirò – dice ancora al Quotidiano il nuovo collaboratore di giustizia – Mio padre l’ha creata, la ‘ndrangheta a Cirò, e io la distruggo. Li faccio andare in galera tutti, perfino i gatti. Perché non è più ‘ndrangheta. Oggi toccano pure le persone povere». Forse un rimando alla mafia  di un tempo, che aveva un “codice” o presunto tale, ma è un falso storico perché non si contano le stragi in cui caddero vittime innocenti, anche per mano della ‘ndrangheta.

Condividi:

COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA

EDICOLA DIGITALE