X
<
>

La seggiovia incendiata qualche anno fa nella Sila cotronellara e Rosario Curcio, presunto reggente della cosca di ‘ndrangheta di Petilia Policastro

Condividi:
6 minuti per la lettura

Il clan di Petilia controllava l’economia del turismo montano, in particolare dei villaggi turistici. Il Tribunale rileva «omissioni» delle vittime che «negano e si arrampicano sugli specchi»

PETILIA POLICASTRO – Ci sono state «omissioni e reticenze» durante il processo. Ma alla fine la signorìa della cosca di Petilia Policastro sui villaggi turistici in Sila è stata riconosciuta dai giudici. Emerge dalle motivazioni della sentenza con cui, nel maggio scorso, il Tribunale penale di Crotone ha disposto otto condanne assolvendo, però, dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, l’ex vicesindaca Francesca Costanzo, nei confronti della quale era stata proposta una pena di 13 anni e mezzo di reclusione.

L’inchiesta trae origine dalla violenta escalation di qualche anno fa nell’Alto Marchesato, tra fatti di sangue e incendi alle strutture turistiche nel cuore della Sila cotronellara, segno evidente di una ripresa in grande stile del racket.

lL CONTROLLO DEL CLAN DI PETILIA SUI VILLAGGI TURISTICI: IL VILLAGGIO PALUMBO

Prendiamo, ad esempio, il caso del Villaggio Palumbo che, scrive il collegio giudicante presieduto da Massimo Forciniti, «doveva rivolgersi a Oreste Vona (condannato a 13 anni e 8 mesi di reclusione, ndr) per ogni esigenza senza ricorrere ad altri, secondo i canoni propri della guardiania ‘ndranghetista».

tramite Vona, «la consorteria petilina praticamente gestiva tutte le attività economiche all’interno della struttura turistica, imponendo la sua presenza in ogni settore e pretendendo l’esclusione di qualsiasi soggetto che avesse interesse a svolgere lavori di qualunque genere all’interno del villaggio così come attesta il contrasto con i Gelfo». Il riferimento è al conflitto con alcuni imprenditori (imputati pure loro) che a un certo porta Vona a definire Antonio Gelfo come un “morto che cammina”.

Ma proprio il dichiarato dei titolari delle strutture turistiche è apparso «connotato da omissioni e reticenze», secondo i giudici, sia con riferimento ad alcune intercettazioni da cui emerge che Gianluca Palumbo assicurava che “non sono usciti dalla nostra bocca i nomi”, «sottolineando – evidenzia il Tribunale – che non ha denunciato il fatto che per la sicurezza del villaggio pagava il “locale” di ‘ndrangheta di Petilia Policastro», sia nel corso dell’esame dibattimentale durante il quale «si è arrampicato sugli specchi per negare la circostanza, allorquando ha dovuto spiegare perché non ha voluto incontrare il boss che chiedeva l’aumento propostogli da Vona».

«In modo un po’ evasivo», invece, rilevano i giudici, Tatiana Dyacenko, che si occupa dell’amministrazione del villaggio, ha spiegato i criteri nella scelta della guardiania, e «solo in quanto incalzata ha confermato quanto dichiarato in fase di indagini».

IL CONTROLLO DEL CLAN DI PETILIA SUI VILLAGGI TURISTICI: IL VILLAGGIO BAFFA

Quanto al villaggio Baffa, è emersa anche qui una «situazione di signorìa, integrante quel ruolo di cosiddetta guardianìa, da parte di un esponente della consorteria petilina, Giuseppe Garofalo». Garofalo, osservano i giudici analizzando le risultanze dell’istruttoria, era «punto di riferimento costante dei condomini per garantire la sicurezza. Addirittura – rilevano i magistrati – un condomino aveva messo con effetto deterrente un cartello nell’appartamento con nome dell’imputato per avvisare eventuali ladri che era controllato da Garofalo».

Dal processo emerge che Garofalo chiedeva tangenti in conto e per nome del presunto reggente del clan, Rosario Curcio, che ha scelto il rito abbreviato. Il nipote omonimo, per inciso, è il killer della testimone di giustizia Lea Garofalo, in occasione dei funerali del quale si è scatenato un putiferio di polemiche in seguito ai manifesti funebri fatti affiggere dall’amministrazione comunale.

Anche in questo caso i giudici rilevano reticenze, stavolta da parte dell’imprenditore Massimo Baffa, che ha parlato di un rapporto di lavoro con Garofalo anche se in nero e del fatto che siccome lui gestiva un maneggio in un’area di proprietà dello stesso Baffa concessa a titolo gratuito ciò era per incrementare le presenze nel villaggio. «Con il suo dichiarato senza dubbio reticente – scrive il Collegio – Baffa offre gli elementi oggettivi per ricostruire la posizione di dominus nell’area di Garofalo, con quella signorìa sul fondo propria della guardiania di stampo ‘ndranghetista.

L’abitazione a titolo gratuito, il maneggio, i lavori in nero

In primo luogo si ricava dal dichiarato del Baffa che a Garofalo era messa a disposizione un’abitazione per sé e la sua famiglia a titolo gratuito, allo stesso modo l’area su cui aveva messo su un’attività di maneggio con cavalli che a Garofalo rendeva economicamente. Si ricava, altresì, che tutti i lavori di manutenzione erano attribuiti e remunerati a Garofalo pur avendo la sua società inservienti ed operai a sua disposizione che per ogni necessità venivano addirittura coordinati da Garofalo il quale però veniva remunerato in nero.

Tutto ciò, a dire del teste, era a vantaggio del villaggio. Tale vantaggio è spiegabile proprio dal dichiarato del Baffa laddove ha sostenuto che la presenza di Garofalo gli ha consentito di non avere servizio di vigilanza dal momento che c’era Garofalo sul posto che era punto di riferimento per tutti gli ospiti, in una parola era il dominus dell’area per cui Baffa gli ha dovuto concedere la guardiania ed ogni lavoro di manutenzione ovviamente retribuito».

Anche alla luce delle dichiarazioni dei pentiti e di quanto emerso dalle intercettazioni, pertanto, Garofalo era «referente della consorteria petilina che incassava il denaro in parte destinato ai vertici». In questo contesto si inserisce la vicenda della famiglia Gelfo che puntava ad affermare la propria «egemonia diretta non solo a libere iniziative imprenditoriali e commerciali ma al controllo, o signorìa, sul villaggio e il suo indotto» e a «scalzare i referenti della consorteria petilina preposti a garantire la serenità del villaggio Palumbo».

IL CONCORSO ESTERNO IN ASSOCIAZIONE MAFIOSA

Ed ecco il ragionamento che i giudici fanno per spiegare l’assoluzione dell’ex vicesindaca di Petilia Policastro. Per affermare il concorso esterno non basta la “mera vicinanza” a un gruppo criminale, nonostante le relazioni con un imputato di spicco come Curcio, né la “semplice accettazione” della promessa elettorale. Occorre, invece, «un vero patto in virtù del quale l’uomo politico, in cambio dell’appoggio elettorale, si impegni a sostenere le sorti dell’organizzazione in un modo idoneo a contribuire al suo rafforzamento o consolidamento».

Invece, «è emerso che elementi della consorteria hanno preferito appoggiare la lista Nicolazzi (il riferimento è all’ex sindaco Amedeo Nicolazzi, ndr) più gradita della lista Calaminici». Ciò per «rapporti diretti e conoscenze pregresse» con alcuni candidati tra cui la stessa Costanzo. L’autorizzazione al campo di calcetto che tanto premeva al clan? «Non è stata nemmeno concessa né è risultata preparazione dell’iter amministrativo». La consegna di pacchi alimentari a famiglie in odore di ‘ndrangheta? «Un modus operandi generale verso tutta la cittadinanza e non erano solo esponenti del sodalizio a riceverli».

GLI ALTRI FILONI PROCESSUALI

Nel filone del rito abbreviato sono state inflitte otto condanne, ma c’è anche un terzo processo, che prosegue in appello, scaturito dall’inchiesta, quello per l’omicidio con soppressione di cadavere di Massimo Vona, vittima di lupara bianca secondo i voleri di Curcio, almeno per l’impostazione accusatoria, ipotesi che non ha retto in primo grado.

Condividi:

COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA

EDICOLA DIGITALE