X
<
>

Condividi:
5 minuti per la lettura

ISOLA CAPO RIZZUTO (CROTONE) – «Ogni sabato si deve riunire la ‘ndrangheta». Parola del 76enne Pasquale Morelli, che essendo ultrasettantenne è stato sottoposto agli arresti domiciliari nell’ambito dell’inchiesta che ha portato all’operazione Garbino, condotta dalle Squadre Mobili di Catanzaro e Crotone e coordinata dalla Dda del capoluogo regionale contro le cosche di Isola Capo Rizzuto. Lui queste cose le sa perché, a suo dire, è “attivo”. Cioè è un appartenente alla ‘ndrangheta. Si mostrava custode della “tradizione” e delle “regole” della mafia calabrese, durante lunghe conversazioni intercettate. Diceva di possedere il “certificato di uomo d’onore”. Ne delineava il ruolo che gli doveva essere attribuito dalla collettività. Nel caso in cui costui non avesse adempiuto ai compiti che gli erano stati assegnati, il clan non avrebbe dovuto ricorrere ad azioni violente, ma punirlo con il rifiuto del saluto e con l’isolamento collettivo: «…Nessuno lo deve salutare… se lui saluta nessuno gli deve rispondere… deve morire da solo, questa è la punizione… no che te lo ammazzano… e che vede? lo ammazzano ed è tutto là, vedere tutto come si deve comportare una persona, sia se è un uomo sia se…, qua le cose vanno rispettate.. tutte le cose…».

Un “uomo d’onore”, per esempio, sa che settimanalmente, precisamente ogni sabato, il “locale” di ‘ndrangheta si riunisce, evidentemente per determinare le strategie criminali da attuare nel territorio di riferimento. Il sabato, del resto, è un giorno che ha un significato particolare nel cerimoniale della ‘ndrangheta e il sabato, dai clan di ‘ndrangheta deve essere rispettato. Inoltre, ogni 29 del mese, l’ordine del giorno delle riunioni è quello di decidere le sanzioni nei confronti di chi si è reso responsabile di qualche mancanza. Le decisioni, stando ai lunghi discorsi di Morelli, dovevano essere riportate a Paolo Lentini, in una determinata fase storica indicato come il reggente della cosca Arena, così come avvenne quando fu deliberata la morte di Giuseppe Arena, classe ‘62, figlio di Nicola, il patriarca del clan scomparsi di recente. Mostrava di essere a conoscenza delle regole che disciplinano gli assetti organizzativi delle strutture di ‘ndrangheta, Morelli, evidenziando, per esempio, che l’elezione del capo di un “locale” doveva necessariamente ricevere l’approvazione del “tribunale d’omertà” al quale prendevano parte tutti i maggiorenti delle famiglie della cosca attive in quel “locale”.

Per esempio, sosteneva di aver sconsigliato a Franco Arena, che a lui si era rivolto prima di venire ammazzato nel marzo 2000 in un bar di Isola, di ricoprire il ruolo di capo cosca. «Il compare Franco quando è uscito dal carcere… è venuto a casa mia… compà, ce lo facciamo un giro? compà ti devo parlare urgente. E voglio che tu mi dici la verità. Che io solo di te mi fido. Mi ha mandato a chiamare Giuseppe Iannone per questo fatto di capo e non capo, tu che dici?». Un fiume in piena. Morelli raccontava che il fratello Vincenzo, a suo dire, sarebbe stato l’unico in grado di sostituire Antonio Arena classe ‘37 al vertice del clan nel periodo della sua sottoposizione al confino. L’”autorevolezza” criminale di Vincenzo Morelli, stando al racconto di ‘ndrangheta, derivava dal fatto che aveva attentato alla vita di un poliziotto, il quale aveva avuto un rapporto sentimentale con la sorella e, successivamente, non aveva voluto contrarre matrimonio. Si diceva uomo di pace, Morelli, raccontava che non aveva mai amato i conflitti, ma non disdegnava i metodi violenti. Per esempio, seppe che un certo “Luca” era stato inserito nell’ambiente criminale isolitano («lo hanno fatto della malavita») e andava spesso in un ristorante, i cui proprietari sono legati a Morelli da rapporti parentali, pretendendo di pagare con un assegno a vuoto, ottenendone anche il resto. Alle rimostranze esternate dal proprietario, “Luca” lo aveva minacciato dicendogli che non avrebbe dovuto dire nulla. Ma sarebbe intervenuto Morelli, informato dai proprietari, e avrebbe pesantemente redarguito Luca: «Quando è arrivato dietro il bar, eravamo io e Lilì, tiro la pistola e gliela metto nell’orecchio… “quando vai a Crotone vai da Capo Colonna non ci passare dal… se no qua ti prendi una pallottola”». Insomma, diceva che le “guerre” gli facevano “schifo” ma giustificava il ricorso alla violenza in situazioni estreme, come quando il padre dovette reagire ad un atteggiamento sfrontato ed oltraggioso assunto da qualcuno nei confronti di un altro figlio. «I cristiani si ammazzano come l’ha ammazzato papà. E che c’è? Ho ammazzato ad uno. Mio padre è andato… era spacchiuso… perchè mio padre era (…) potere (…) gli ha tirato uno schiaffo in mezzo alla ruga (…) Che quello gli ha detto a mio fratello “chi cazzo ti senti di essere”. Sono Vincenzo Morelli. Tu? (…) Io sono il re in questo paese, quanti siete?”. Ecco, queste cose qua sì, sono ammesse».

Forse proprio per la stretta osservanza dei rituali mafiosi il collaboratore di giustizia Giuseppe Fuscaldo, nei primi, storici processi contro le cosche di Isola aveva indicato la famiglia Arena, suddividendola nei ceppi “Cicala” e “Chitarra”, come la più antica organizzazione criminale “tipica della ndrangheta”, perché concepita su base familiare e patriarcale. Il primo riferimento giudiziario è una sentenza emessa il 9 gennaio 1975 dal Tribunale di Crotone, sebbene allora non fosse ancora riconosciuta la fattispecie dell’associazione mafiosa. Una sentenza che evidenzia, tra l’altro, la disponibilità di armi altamente offensive, indispensabili per il controllo del territorio da parte della cosca specie nella fase di contrapposizione con l’avversa consorteria dei Maesano. Oggi le cose sono cambiate. Proprio Fiorello Maesano sarebbe il referente criminale degli Arena, stando alle risultanze della nuova inchiesta sulle cosche isolitane.

Condividi:

COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA

EDICOLA DIGITALE