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Le bare delle vittime della strage di Cutro

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Non sono degne di nota, di uno sguardo (artico-istituzionale nemmeno) figurarsi di un fiore, evidentemente, le vite dei piccoli morti di Cutro

Non sono degne di nota, di uno sguardo (artico-istituzionale nemmeno) figurarsi di un fiore, evidentemente, le vite dei bambini annegati nel mare di Cutro. Visto che lo spiegamento romano non ha avvertito l’urgenza, e c’era, l’urgenza, di recarsi al palazzetto dello sport di Crotone a restituire rispetto, seppur siberiano, a quelle piccole bare bianche. Al punto che chi ha chiesto se fosse in programma una visita si è sentito rispondere, con farfugliare d’imbarazzo, “beh, non ho nulla in contrario, non ho problemi ad andare…”.

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Non ho nulla in contrario. In questa locuzione c’è tutta l’abnorme, scandalosa inadeguatezza umana dell’Occidente, impegnato a calpestare la vita degli altri come può un carro armato su un campo di fiori e insetti innocenti. Milioni di persone, che sono fiori innocenti, ciascuno con un talento da scoprire, perché tutti lo hanno, fosse anche soltanto quello di disegnare uno scarabocchio, di pisciare a cinque metri, oppure di sognare, sì, in un pianeta senza più sogni se non quelli di accumulare poteri e comandi, schiacciate ogni giorno nei loro diritti fondamentali. Logici. Rigorosi.

Si nasce, a questo mondo, e da ovest a est, da nord a sud, si ha per statuto naturale il diritto di vivere, respirare, nutrirsi, ed essere riconosciuti. Se non, addirittura, amati. Sono concetti elementari, tranne che per la capitalistica, perfida algebra occidentale. Dopo il piccolo cadavere emerso dall’acqua venerdì, ieri il mare ha restituito quelli di altri due bambini. È l’inammissibile macello dei bambini, Cutro. Non avevano, questi ultimi, oltre i cinque o sei anni di vita. Residuale, naturalmente, stando a quella logica selvaggia.

Bisognerebbe fare marcia indietro, correndo lì ad abbracciare quelle casse da morto bianche, invece di cantare la canzone di Marinella a una festa di compleanno. Non si dice “se proprio devo, non ho nulla in contrario”, si dice io sono a pezzi per quei bambini, vado. Si dice non importa di ciò che dirà la gente, della reazione dei familiari, non mi importa dei peluches. Io, vado. Invece no, c’è la macchina blu, e ha il motore acceso. Ci ripetiamo, è anche una questione proprio di ignoranza abissale. Ma è vero ugualmente che per chi è così affannato sul fronte dello schiacciamento altrui, mascherato da democrazia, parliamo di tutte le democrazie della parte del globo ricca, istruirsi su fatti così scomodi per quel po’ di coscienza che resta è davvero faticoso.

Non occorre andare tanto lontano. In Africa per esempio (ma occorrerebbe, eccome), piuttosto realmente a due passi da noi: a sud della Turchia, devastata dal terremoto, due milioni e mezzo di bambini hanno bisogno di tutto e con impellenza. “Ieri”, ne avevano bisogno, come si dice, non “oggi”. Nella sola Siria 3,7 milioni di bimbi sono stati coinvolti dal sisma. In un paese che già prima di questa catastrofe aveva il maggior numero di sfollati al mondo: ben 6,8 milioni di persone, e tra queste più di 3 milioni di piccoli siriani.

In Pakistan, da dove molti dei naufraghi di Cutro fuggivano, 4 milioni di bimbi soffrono la fame. Letterale. Circa l’86 per cento delle famiglie non ha più una briciola, che sia una, di reddito. Non sono numeri (ed è, attenzione, soltanto un minuscolo quadro), ma pugnalate. Studiasse, perciò, chi deve. Chi dice di voler andare a pescare gli scafisti casa per casa sulla Terra, si occupi prima delle non-vite di quelli che scappano, in modo da comprendere finalmente il motivo per cui si vende quel pezzo di terreno, la casa, per metterle in mano, queste non-vite, alle bande di trafficanti. E si voltasse indietro, ogni tanto.

Rammenti, chi ha impostato la sua campagna elettorale con slogan del tipo “sono madre”, che anche le madri pakistane, siriane, turche, o altrove nel mondo, lo sono. Anche quei figli che tengono, o che tenevano in braccio, come diceva Eduardo, sono figli. Sarebbe stata una gran fatica, certo, guardarli in “faccia” in una bara quando si è ballato tutta la vita sulla dignità e l’onore, che dobbiamo a tutti gli esseri umani, di chi è nato dalla parte sfortunata del Mediterraneo o della terraferma.

Andava fatto, bisognava guardare in faccia con coraggio quei piccoli cadaveri. Allo stesso modo, prima, prima delle benedizioni, prima della morte, andavano rispettare le leggi (chiarissime) sul soccorso in mare. A quest’ora forse non avrebbe dovuto restituirci gli ennesimi corpicini straziati. Tredici giorni tra i pesci, pensate. Bambini come i nostri bambini. Bambini che su quella spiaggia avrebbero dovuto impegnarsi soltanto a raccogliere una conchiglia portafortuna e metterla in tasca prima di riprendere il cammino, invece di lottare con la morte e annegare. E, da morti, meritarsi pure le nostre colpevolissime indolenze e tutte le spaventose menzogne sulle invasioni dello straniero.

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