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COSENZA – Una banale regola economica dice che quando il mercato interno si contrae per recuperare fatturato non si può che “bussare” ad altri mercati. Per molti economisti sarà l’export a far ripartire l’economia italiana. Se questo assunto fosse vero la Calabria ha davvero poco da sperare. Nei primi tre trimestri del 2013 le esportazioni della Calabria sono state pari a 263 milioni di euro, sensibilmente inferiori ai 282 milioni di euro dello stesso periodo dell’anno precedente, tanto che le statistiche dell’anno appena trascorso si chiuderanno certamente con una variazione decisamente negativa rispetto ai 374 milioni di esportazioni dell’intero 2012 e per il terzo anno consecutivo inferiori ai livelli pre crisi. Una sostanziale stabilità della dinamica all’export che lascia inalterata, allo 0,1 per cento, la quota della regione sulle esportazioni nazionali. E a far pendere dalla parte sbagliata la bilancia commerciale della regione pesano i valori quasi doppi delle importazioni. Per gli esperti dell’Istituto per il commercio estero, che hanno rielaborato i dati Istat, l’inerzia del 2013 è la sintesi di dinamiche provinciali eterogenee e di una bassa propensione all’export della regione (ormai cronicizzata al 1,6 %). L’anno è stato, infatti, scandito dalla contrazione dei valori esportati dalle province di Crotone e Reggio Calabria (provincia, questa ultima, da cui origina il 35 per cento del valore dell’export regionale) e dalla contestuale espansione delle esportazioni delle province di Catanzaro, Cosenza e Vibo Valentia. E a cercare di spiegare la situazione ci pensano alcuni imprenditori per i quali il vero problema è che jnon esiste un brand Calabria. 

di MASSIMO CLAUSI
COSENZA – «Sa qual è il vero dramma del nostro export? Che non esiste un brand “Calabria”. Se parliamo di olio tutti pensano alla Toscana, nonostante il nostro sia migliore; se parliamo di arance, tutti penseranno alla Sicilia: passiamo agli insaccati? Un brand è  il prosciutto di Parma o la mortadella di Bologna, la soppressata no»
Mario Brogna è uno che di export se ne intende. Guida l’azienda olearia Gabro, il cui fatturato è costituito per l’80% da esportazioni.
Un risultato che Brogna, imprenditore quasi per caso, ha raggiunto contando soprattutto sulle proprie forze.
«Non solo – dice – il brand Calabria non esiste, ma non c’è nessuno che si impegna davvero per crearlo. Se in questi giorni dovesse capitare a Milano, noterà che in vista dell’Expò 2015 ci sono già i manifesti pubblicitari di regioni come Toscana, Marche, ecc. Dalla Calabria zero perchè difettiamo sempre in programmazione, nonostante le fiere e gli expò sono appuntamenti fissi che si potrebbero programmare con tutta comodità. Credo che manchi proprio la lungimiranza. Tre anni fa ero in Cina dove era in atto una grande fiera alimentare. C’era uno stand della Provincia di Cosenza, costato circa 46.000 euro, ma era desolatamente vuoto perchè le aziende che erano state invitate a parteciparvi non potevano, per questioni di dazi doganali, esportare in Cina. Si rende conto?».
Un altro male che secondo Brogna affligge la politica è quello del protagonismo fine a se stesso. Nelle grandi fiere difficilmente ci sarà un solo stand. «Spesso andiamo in ordine sparso: la Provincia, la regione, la Camera di commercio e per riempire gli stand vengono ospitate aziende che poi non hanno le capacità per affrontare l’export e tutto si traduce in un ulteriore perdita d’immagine per la Calabria, anzichè un beneficio». Insomma nessuno rinuncia al comunicato stampa corredato da foto con sorriso smagliante alle spalle dello stand. Un male tutto calabrese.
Le carenze infrastrutturali e logistiche sono solo delle scuse, allora, sul freno al nostro export? «Sono una grande problema, ma una volta che uno ha i clienti. Se non ce li hai come portare il prodotto sul mercato diventa assolutamente secondario».
Eppure c’è chi è riuscito, proprio come Brogna. La sua azienda nasce nel 1909 quando il nonno, nativo di Lecce, si innamora della piana di Sibari e compra un frantoio a Lauropoli, frazione agricola di Cassano allo Jonio. Dopo un po’ di anni Mario Brogna si laurea e intraprende  la carriera di biologo molecolare. Entra in contatto con ambienti vicini alla Sme, e al gruppo Cirio in particolare, per motivi di ricerca. In questo frangente gli viene chiesto di imbottigliare l’olio per la Cirio nel suo frantoio di famiglia e lui ci prende gusto; abbandona la ricerca scientifica e si dedica anima e corpo all’attività di famiglia. «Grazie anche a mia moglie che è napoletana – dice lui sorridendo – e con quel fatalismo tipico dei campani mi ha lasciato carta bianca, male che va – mi disse – c’è il mio di stipendio».
Ma la vera svolta per Brogna arriva nel 1988 quando partecipa ad un convegno a Modena in cui si parla di agricoltura biologica. Viene folgorato. Il biologico, al tempo, è ancora un movimento di pensiero, non un business, ma lui decide subito che avrebbe prodotto olio biologico, come fa ancora. Sfrutta le sue conoscenze in campo scientifico per presentare le sue bottiglie con un collarino appeso, firmato da tre luminari, in cui vengono descritte le caratteristiche organolettiche del prodotto. 
Da allora va in giro per il mondo a proporre le sue bottiglie. «Non è stato facile – ammette – stiamo parlando di circa 20 anni fa. La Calabria era conosciuta per la ‘ndrangheta, ma avevamo anche l’immagine di gente poco seria. Colpa dei migranti del tempo che magari si portavano dietro un po’ di capicolli, un po’ di olio e dicevano di avere un’azienda in Italia. Poi magari i tedeschi venivano per vedere lo stabilimento e non trovavano nulla. Oggi una cosa simile è impensabile perchè ci sono società che si occupano proprio di controllare le aziende che si occupano di export e poi perchè ormai tutti viaggiamo facilmente».
Da pioniere dell’export calabrese nel 1990 riesce a stringere un accordo con la coop danese, poi con quella svedese e parte l’escalation che ha portato il suo olio nelle tavole Usa, giapponesi, francesi, olandesi. Non è stato facile però «Pensi che mentre io propagandavo l’olio calabrese – ci dice – l’Arssa andava in giro a fare convegni portando foto dove si vedevano donne che raccoglievano le olive da terra. Insomma anzichè aiutarci le istituzioni spesso ci affossanno, mentre tutti i soldi spesi per fiere e altro potrebbero essere investiti diversamente e in maniera più proficua. Consideri che quell’0,1% del Pil in cui consistono le esportazioni per la gran parte è costitutio da aziende come la mia, Callipo o Caffo che hanno oltre il 50% del fatturato su estero. Ma questo tipo di aziende in Calabria sono mosche bianche».

«Se parliamo di olio tutti pensano alla Toscana, nonostante il nostro sia migliore; se parliamo di arance, tutti penseranno alla Sicilia: passiamo agli insaccati? Un brand è il prosciutto di Parma o la mortadella di Bologna, la soppressata no». Mario Brogna è uno che di export se ne intende. Guida l’azienda olearia Gabro, il cui fatturato è costituito per l’80% da esportazioni. Un risultato che Brogna, imprenditore quasi per caso, ha raggiunto contando soprattutto sulle proprie forze. «Non solo – dice – il brand Calabria non esiste, ma non c’è nessuno che si impegna davvero per crearlo. Se in questi giorni dovesse capitare a Milano, noterà che in vista dell’Expò 2015 ci sono già i manifesti pubblicitari di regioni come Toscana, Marche, ecc. Dalla Calabria zero perchè difettiamo sempre in programmazione, nonostante le fiere e gli expò sono appuntamenti fissi che si potrebbero programmare con tutta comodità. Credo che manchi proprio la lungimiranza. Tre anni fa ero in Cina dove era in atto una grande fiera alimentare. C’era uno stand della Provincia di Cosenza, costato circa 46.000 euro, ma era desolatamente vuoto perchè le aziende che erano state invitate a parteciparvi non potevano, per questioni di dazi doganali, esportare in Cina. Si rende conto?». 

Per quanto riguarda le carenze infrastrutturali e logistiche «sono una grande problema, ma una volta che uno ha i clienti. Se non ce li hai come portare il prodotto sul mercato diventa assolutamente secondario. Consideri che quell’0,1% del Pil in cui consistono le esportazioni per la gran parte è costituito da aziende come la mia, Callipo o Caffo che hanno oltre il 50% del fatturato su estero. Ma questo tipo di aziende in Calabria sono mosche bianche».
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