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L'ex presidente del consiglio regionale della Calabria Domenico Tallini

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CARO Direttore, ho appena finito di leggere l’ordinanza di custodia cautelare emessa a carico di Domenico Tallini e, francamente, non mi pare che le accuse mosse contro di lui – voto di scambio e concorso esterno in associazione mafiosa – siano così granitiche. È vero, in questa vicenda il crimine organizzato gioca un ruolo da protagonista, ma non si registra alcun contatto diretto tra Tallini e malavitosi conclamati. I suoi interlocutori sono sempre e solo commercialisti, faccendieri romani – uno è figlio di un primario del “Gemelli” – e un antennista Sky, forse il più esposto ma fino a ieri sconosciuto alle cronache. Nulla di strano: è il solito campionario di presunti “rispettabili” che la ‘ndrangheta utilizza per infiltrarsi nella vita pubblica, ma in termini di indizi sembra esserci davvero poco per affermare che l’allora assessore regionale al Personale fosse consapevole del fatto che dietro questo schermo si celavano gli interessi dei Grande Aracri e del clan dei gaglianesi.

In tal senso, gli argomenti addotti dalla Procura per dimostrare la sua mafiosità – la ritrosia a viaggiare sulle auto altrui e quella a conversare al telefono – ad una “lettura ordinaria” non bastano a giustificare la tesi che fosse “consapevole di avere qualcosa da nascondere”. Allo stesso modo pure l’ipotesi di voto scambio appare deboluccia perché si limita all’osservazione empirica di un dato elettorale, quello delle Regionali del 2014. Può sembrare strano che un politico di Catanzaro ottenga tanti consensi in provincia di Crotone, ma ci vuole anche dell’altro per dimostrare che quei voti siano di provenienza illecita, diversamente quasi tutti i nostri eletti sarebbero in teoria passibili di deportazione.

Chiudo con un ulteriore elemento di dubbio: in questa vicenda sono tutti sotto intercettazione, tranne Tallini. O meglio: nell’ordinanza non è richiamato neanche un frammento di conversazione estrapolato dal suo telefonino. Strano no?

Sul punto, rinvio ogni valutazione alla lettura completa degli atti, ma fin da ora mi sbilancio ad affermare che Tallini con la ‘ndrangheta non c’entra un bel niente, il che non lo esime da responsabilità altrettanto gravi. Questa storia, infatti, immortala come poche altre la malattia di cui soffre la Calabria, ne descrive i sintomi e suggerisce persino una possibile cura. Il punto è questo: abbiamo un assessore che favorisce la realizzazione di un consorzio dedito al commercio di farmaci e quando il dipartimento regionale ha qualcosa da obiettare, lui che fa? Va in pressing sulla dirigente, briga per stravolgere l’assetto di quel dipartimento e riesce a sbloccare la pratica. Poi si tuffa in prima persona nell’affare: sceglie il capannone, contatta i farmacisti da consorziare, inserisce il figlio nel consiglio d’amministrazione e assume la nuora come dipendente. Va da sé che commette un abuso d’ufficio grande come una casa, non è questo l’aspetto da focalizzare: il dato rilevante è che tutto ciò, Tallini lo fa alla luce del sole. Non trama nell’ombra, agisce allo scoperto.

Due considerazioni al riguardo: perché il suo partito non lo ferma? E soprattutto, dov’era l’opposizione? Evidentemente sia gli uni che gli altri ritenevano tollerabile, se non addirittura legittimo, che un esponente delle istituzioni esercitasse il suo potere per arricchirsi e accrescere il consenso elettorale. Il punto è proprio questo: oggi guardiamo con raccapriccio alla situazione dei nostri ospedali, ma dovremmo realizzare che le commistioni tra politica e imprenditoria abbracciano ogni settore della vita pubblica, non solo quello della Sanità. Sarebbe interessante scoprire quante ditte o società di servizi ricevono commesse regionali perché collegate in modo diretto o occulto a questo e a quell’assessore o consigliere regionale. In altri termini: quanti Tallini siedono e sederanno ancora tra quei banchi? Definirli amministratori collusi, non è corretto. Tutti insieme rappresentano, invece, il ventre molle della nostra società, quello attraverso il quale la criminalità s’insinua approfittando delle debolezze umane.

La disavventura di Tallini è significativa anche da questo punto di vista: il nostro ex presidente del consiglio regionale non agisce per favorire gli interessi delle cosche, ma finisce per spalancare loro le porte a causa della sua avidità. Rileva giustamente il gip come la ‘ndrangheta, in questa come in altre circostanze, non sia interessata ad avviare attività imprenditoriali, ma ragiona in modo parassitario: sfrutterà il consorzio per far lavorare le ditte amiche, riciclare capitali sporchi e rivendere poi capannoni e macchinari dopo aver spolpato il frutto fino all’osso. Non a caso, il business dei farmaci naufraga due anni più tardi, ed è un epilogo che, a mio avviso, indebolisce ulteriormente il quadro d’accuse contro Tallini. In quell’affare, infatti, lui ha investito del denaro, suo e del figlio. Sono gli stessi inquirenti a dare atto della paura che assale Tallini jr. quando scopre, in modo casuale, che sul consorzio incombe l’ombra dei Grande Aracri, e non a caso sarà ancora lui, due anni più tardi, a portare i libri in tribunale, mettendo così la pietra tombale sul progetto.

Il più grosso pasticcio della sua vita, dunque, Domenico Tallini l’ha combinato per i soldi e per i voti, non perché è mafioso. Poteva essere fermato prima – a questo punto gli avremmo fatto anche un favore – ma si è dovuto attendere, come sempre, che scendesse in campo la Dda. E qui, si apre la parentesi più spinosa: che la politica debba intervenire prima della magistratura è una delle frasi più autentiche, ma anche più abusate dell’ultimo ventennio. Il fatto è che per intervenire prima, la politica dovrebbe riuscire a controllare se stessa, pensionando per tempo i tanti Tallini che s’incontrano sul cammino prima che arrivi qualcuno ad arrestarli. Sembra facile in apparenza e per certi versi lo è. Se solo la burocrazia regionale avesse resistito alle pressioni politiche, bloccando lo scellerato consorzio “Farma Italia”, avremmo impedito l’ennesimo imbroglio e disinnescato gli interessi criminali che ruotavano attorno a esso.

Ecco, la buona notizia è che a volte per neutralizzare il male basta un semplice “No”. Il problema è che in Calabria, prima o poi, bisognerà trovare il modo di dire “Sì” per realizzare anche qualcosa di buono, ma temo che per questo si debba attendere almeno un paio di generazioni, il tempo di rifondare un’intera classe politica. Avviamo questa selezione allora, e cerchiamo di fare in modo che, nel frattempo, non sia l’immobilismo l’unico antidoto alle infiltrazioni di una criminalità che, districandosi ancora tra un amministratore rapace e uno improvvisato, continuerebbe a non avere che l’imbarazzo della scelta.

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