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L’anziano don Angelo spiegò che il battesimo si sarebbe potuto fare. Ascoltandolo, fissando nella mente il giorno e l’ora, sul viso di Andrea scesero tiepide lacrime, e lievi. Le lasciò andare giù fin dentro al collo anche dopo quel breve colloquio, uscendo dalla chiesetta di san Nicola, nel cuore di Roma, dove spesso al mattino si fermava sedendo all’ultimo banchetto prima di andare in ufficio, in via dei Prefetti numero 36. Alle 19 di un freddo 15 febbraio Leonardo fu battezzato.

C’erano don Angelo e Andrea, che di quel bambino ancora conserva l’ultimo scatto dell’ecografo. La compagna, giovanissima, non se l’era sentita di portare a termine quella gravidanza. La famiglia non ne sapeva nulla, e lei stava per partire con l’Erasmus. Vide davanti a sé un muro alto decine di metri. Piansero a lungo, salutandosi per sempre. Ad Andrea era sempre piaciuto quel nome, sin da bambino. Chiamò Leonardo un soldatino di piombo che appendeva tutti gli anni sull’albero di Natale.

Si disperò per mesi, ma una mattina intuì, all’improvviso, come fosse una grazia, che la morte si mescola con la vita in un unico, grande, misterioso fiume che scorre, che quel trauma perciò avrebbe pur dovuto avere un senso.

Oggi frequenta un gruppo di auto mutuo aiuto, l’acronimo è Gama, si chiamano così. Da 12 anni si celebra nel mondo il Baby Loss Awareness Day, dedicato ai genitori che hanno perso un bambino durante la gravidanza o subito dopo il parto. Che sia per interruzione o altre cause, è un lutto. Un lutto terribile, una pena insopportabile che qui in Italia stentiamo a riconoscere. Istituzioni in testa.

Ci sono oltre duemila famiglie che vivono l’esperienza della morte nel periodo che si definisce perinatale. Feti, corpicini che finiscono non di rado nei laboratori di Anatomia patologica, e successivamente tra i rifiuti speciali. La frase che spesso si sente ripetere negli ospedali tra gli operatori sanitari, che troppo spesso mancano di umanità (e di formazione, fondamentale) è “ma sì, ne faranno un altro”. Invece ci sono abbracci e baci sognati per mesi con figli che non potrai mai abbracciare, mai baciare, ai quali non si potrà mai accomodare il ciuffo dei capelli, mai insegnare a dire mamma.

“Una gravidanza che si interrompe è destinata a lasciare nella madre e nel padre un grande vuoto”, spiega Cecilia Gioia, psicologa e psicoterapeuta che a Cosenza assiste con attenzione e doloroso, anche, coinvolgimento (ma la Calabria non era terra di malasanità?) queste coppie, mamme, e padri, in fasi decisive: prima, durante il parto del silenzio; e dopo, il tempo più difficile. Nel periodo massimo della pandemia, tutti ci siamo confrontati con la morte. Nel mezzo anche loro, i genitori di questi bambini. Costretti a casa, come in un incubo. Ma gli incontri del gruppo “Parole In ConTatto”, nato a Cosenza nel 2014 e che oggi coinvolge genitori di tutta la regione, costola dell’associazione “Mammachemamme”, guidati dalla dottoressa Gioia, sono andati avanti via social. Senza sosta. Un nucleo storico di coppie forma la roccia dove è costruita questa casa. Ma c’è anche chi bussa e si affaccia una volta sola, racconta la sua storia, si disseta dalle fatiche, poi prosegue da solo. Un racconto corale, che ci piace paragonare a quelli della tradizione più antica. Un romanzo permanente, uno specchio multiplo dove riconoscersi, ricostruttore di armonia. Salvifico. Davila, 44 anni, avvocato, perse Gaia alla 27esima settimana.

La piccola visse per soli 6 giorni. Ciò che le fa ancora male è non averla potuta tenere tra le braccia perché in terapia intensiva, quando invece in altre realtà spingono al contatto col bambino, anche se malato e destinato a non sopravvivere. Accadde a luglio, e questo è il mese della passione che tutte le volte si rinnova, quando si aprono le stimmate e Davila rivive tutti i passaggi del suo personale Monte Calvario. Dopo Gaia, adottarono Emanuela. Aveva 5 anni, ora ne ha 12.

“Spesso si sente l’urgenza di riempire quel vuoto iniziando una nuova gravidanza, o quando si può, adottando, ritenendo insopportabile gestire la perdita, doppia, del loro bambino e dello stato di genitori in attesa”, spiega la dottoressa Gioia. I figli nati dopo un lutto del genere sono definiti bambini “arcobaleno”: la luce, dopo una tempesta inaudita che sembra aver spazzato via tutto. “Occorre tanto coraggio per mettere al mondo un arcobaleno, e quando finalmente arrivano prendono tutto lo spazio che c’è, non fanno sconti”. Ma prima c’è “la gioia e l’angoscia, in una altalena di sentimenti che accompagna i nove mesi. E oltre”.

“Durante le due successive gravidanze non ho mai toccato la pancia, per paura di affezionarmi. E se avessi perso anche loro?”. Erminia, 47 anni, ne ha due di figlie arcobaleno, Eleonora e Edelweiss. Perse Fabiola sotto un Natale gelido, era il 20 dicembre. A ben 36 ore dalla nascita si accorsero di un’ernia diaframmatica, non c’era più nulla da fare. Ci concede di vederla nella foto che custodisce sul cellulare: Fabiola è bellissima, attaccata al seno. Compirà quest’anno 18 anni. Il lutto è elaborato, ma fa sempre male, però oggi per Erminia la rabbia si è trasformata in grazia.

Nel mondo milioni di mamme non possono permettersi nemmeno di riflettere. Secondo l’Unicef ogni anno un milione di bambini non sopravvive al primo giorno di vita, per cause legate alla fame o alle malattie. Ma pensiamo anche alle centinaia di piccolissimi morti sotto le bombe in Siria, intrappolati tra le macerie degli ospedali pediatrici. E non si può tacere su quelli uccisi in fila per il pane, in braccio alle madri, dei piccoli assiderati nei campi profughi, di quelli annegati in mare.

Sono anch’essi, quei figli, quelle madri, quei padri, identici ai nostri figli, padri e madri. Il dolore, e l’amore, non hanno latitudini riservate, i sentimenti non sono appannaggio per pochi. Invece quelli della maggior parte dei diseredati vengono gettati via, come fossero carta per le uova. Spesso con disprezzo, in un deserto sconfinato di indifferenza e ancor più quando non stanno a due passi da noi. Ammesso, tuttavia, che possa servire abitare sullo stesso “pianerottolo”.

Lorenza, 43 anni, insegna lettere in un liceo di Pescara. Suo figlio morì nel 2006. Il battito non c’era più, subì poi un devastante raschiamento. Racconta: “Il mio utero per circa un anno non volle essere fertile, terra bruciata, anzi bagnata da lacrime e mistero silente”. Ma non fu aiutata da nessuno. Storie di ordinaria (e letale, spesso) noncuranza. Le donne, sono sole. Ciascuno lo è, ma le donne forse ancora di più in situazioni così dure. E anche le famiglie lo sono, troppo spesso, ripete Cecilia Gioia, raccontandoci della nascita in silenzio di Marina, 18 settimane, con la cui mamma ha “partorito insieme, cercando di accompagnarla in questo momento così doloroso”.

Per lei, come per tutti, si prepara una memory box con uno speciale corredino, e una lettera. Anche un’altra componente del gruppo, Alessandra, 41 anni quando perse Ludovica, costretta a una interruzione terapeutica, la ricevette. Di quei giorni ha un ricordo cupo, di modi spiccioli in ospedale, di solitudine. L’annuncio del ginecologo per telefono. “Mi chiese di sedermi, poi aggiunse soltanto che avrei dovuto abortire. Il tempo di andare in ospedale è la procedura si avviava, con l’unico medico non obiettore di coscienza”. Era il 16 di agosto, Ludovica in un lettino accanto, in un contenitore.

E anche Francesca, 39 anni, mamma di Antonio Pio, nato in silenzio il 21 settembre del 2014, giorno del suo compleanno che da allora non festeggia più. Ha una bambina arcobaleno, Karola Pia, di tre anni. “Ricordo le Hogan bianche del ginecologo – dice – la sua aria dura e sbrigativa quando rispose no alla mia richiesta di vedere il bimbo”.

Ha una storia dolorosa Valeria, 38 anni. Suo figlio Alessio Antonio morì nel 2017 dopo appena 10 giorni dal parto, a Padova, in terapia intensiva. Non c’era alcuna speranza, lei e il marito acconsentirono al distacco delle macchine. Decisione a cui seguirono ingiusti e superficiali giudizi. Oggi anche questi giovani genitori hanno due gemellini arcobaleno. Ogni giorno – secondo i dati di “Ciaolapo”, associazione nata a Prato nel 2006, unica in Italia a carattere scientifico e assistenziale, unita a doppio filo con “Mammachemamme” di Cosenza – in Italia 6 famiglie perdono i loro figli a termine della gravidanza o subito dopo. Spesso chi sta dall’altra parte menziona, a sproposito, un’oscena equazione: piccolo bimbo, piccolo dolore. Non è affatto così. Per nessuna mamma, nessun padre.

Francois è della provincia di Nantes, vive nel nord Italia con Margherita. Sono il papà e la mamma di un bambino nato in silenzio dieci anni fa. Si chiama Enrico, in onore di Berlinguer. Raccontano che non gli avrebbero chiesto di diventare il migliore, ma di provare a essere felice nonostante un mondo così ostile. Glielo hanno scritto però in una lettera, conservata in un carillon che suona il Notturno opera 9 di Frederic Chopin. Una lettera che è un dolce e potente manifesto, una delicata lettura della vita che sarebbe stata di Enrico. Nato nel silenzio. Come le acque di questo lago, dove affaccia la loro casa. Silenziose, e presenti. Vive.

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